Unità di strada Telestreet a Senigallia

Articolo di Roberto Mazzoli e Yuri Gidoni

Per fornire una collocazione teorica all’intervento di prevenzione che verrà qui descritto, quello di un progetto di Unità mobile dotata di tv di strada, appare conveniente utilizzare alcuni assunti della teoria degli ambiti di Josè Bleger, che presuppone diversi livelli di intervento e valutazione dell’operato. Detto per inciso che si tratta di una osservazione a posteriori del lavoro svolto, si può tentare di sintetizzare: l’unità di strada è in grado di intervenire, nel rapporto diretto con l’utenza e, più in generale, nella azione di decostruzione di stereotipi e pregiudizi sociali, su 4 livelli:

1) individuale, nell’aggancio in strada, nella informazione e consulenza, nel contatto umano nelle sue implicazioni emotive e relazionali;

2) gruppale, nei contesti della aggregazione informale (nei parchi, bar e discoteche, centri sociali) ed in quelli della aggregazione formale (scuola, associazionismo);

3) istituzionale, nella produzione di informazioni e nella raccolta e distribuzione delle conoscenze, nella sensibilizzazione verso nuovi interventi di prevenzione, nel rapporto (spesso conflittuale) tra legalità/illegalità/etica/necessità pratica (e quindi nel campo del politico), come ad es. nel dibattito sulla distribuzione delle siringhe come strumento di prevenzione sanitaria o come incentivo al consumo, oppure nel contrasto tra l’approvazione di un progetto regionale che doti una unità di strada di una apparecchiatura di trasmissione che la legge sulle telecomunicazioni dichiara illegale;

4) comunitario, nei risultati ottenuti dalla riduzione del danno nella diminuzione di casi di overdose, infezione di malattie infettive e, più in generale, in un’ottica di diritto costituzionale alla salute per tutti i cittadini.

Si tratta di alcuni esempi verificatesi nel campo e può risultare una analisi certo ambiziosa ma anche, e soprattutto, un ambito di ricerca da approfondire.

L’analisi istituzionale di Lapassade1 offre anch’essa lo spunto per tracciare una linea analitica e narrativa degli avvenimenti:

Momento istituente?

Il servizio di unità di strada parte a Senigallia (An), nel novembre 2000, in una maniera a volte consueta per l’ambito socio sanitario, cioè con il subentro da parte dei tre operatori in un progetto di intervento che definiremmo preconfezionato. Che significa? Il progetto era stato presentato alla Regione Marche, nell’ambito dei fondi legge 309, sul modello già sperimentato nella città di Ancona, definendo delle tappe di intervento così stabilite: formazione, costruzione della rete, mappatura, aggancio tramite distribuzione siringhe e materiale sterile, valutazione. L’applicazione pratica di tale schema si rivela creativa, caratterizzata da rapporti di idee in movimento, e quindi istituente, nella fase di predisposizione dei dispositivi di intervento (appunto la mappatura, la formazione e la costruzione e mantenimento della rete) e perde tali caratteristiche nella fase successiva, quella del contatto con l’utenza. Cresce giorno per giorno negli operatori la consapevolezza della scarsa efficacia del servizio in quanto le postazioni, regolari e distribuite in vari punti del territorio, non registrano per diversi mesi alcun contatto (se non quello con le forze di polizia e carabinieri). Subentrano la noia, il senso di inutilità e la sensazione di non meritare le risorse finanziarie impiegate e, contemporaneamente, si mantiene viva la necessità, anche consolatoria, di rispettare le indicazioni progettuali.

Da non crederci, eravamo già burocratizzati (istituzionalizzati?), il fine di realizzare gli obiettivi progettuali era già sostituito dal mezzo attraverso il quale essi dovevano essere raggiunti: il rispettare coerentemente le indicazioni del mandato.

A questo punto la formazione, negli aspetti relativi alle tecniche della ricerca-azione e della osservazione partecipante, ci offriva la possibilità di reagire allo stallo, dando vita ad una nuova fase istituente, o forse la prima vera e propria.

La ricerca-azione come nuovo momento istituente.

La ricerca effettuata si poneva l’obiettivo di raccogliere informazioni sulla percezione generale dell’andamento della dipendenza da sostanze tossiche nel territorio senigalliese attraverso gli strumenti tradizionali della intervista e del questionario.

L’incontro con la popolazione nei bar, nelle farmacie, nei centri di aggregazione, a scuola e nei giardini fino alla nascita del G.A.I.A.D.2, ha portato gli operatori a confrontarsi con un ruolo inedito (piuttosto improvvisato), alla sperimentazione di una funzione di coordinazione di gruppo fondata sulla logica assembleare e la pari dignità di ogni membro, una funzione leggera dal punto di vista direttivo e decisionale ma pesante dal versante relazionale e di consulenza. Il motore del gruppo, il compito di apprendere, si è stabilito su una forma di comunicazione basata sulla differenza individuale e sulla emersione e discussione dei conflitti, così capaci di stimolare quella conoscenza a scopo interazionista volta al cambiamento, efficace proprio perché esercitata in senso orizzontale, condiviso e partecipato.

La discussione dei dati e la loro pubblicazione, il momento istituito.

La ricerca, pubblicata nel volume L’isola che…c’è!, il lavoro di strada dalla riduzione del danno alla promozione della salute, ha delineato, almeno dal punto di vista percettivo, una realtà cittadina tendenzialmente scevra da forti conflittualità sociali e caratterizzata da uno stile di vita del dipendente da sostanze tossiche scarsamente legato alla strada. Inoltre, essa ha indicato nell’aspetto informativo e comunicativo l’emergente3 primario sul quale intervenire nella attuazione di un nuovo progetto di prevenzione. L’informazione pubblica in materia di sostanze stupefacenti è stata da alcuni considerata eccessivamente moralistica e verticale, selettiva e scritta con un linguaggio falsamente giovanile. Il dato, seppur circoscritto, deve far riflettere chi, come gli operatori della prevenzione, ha il compito di meta-apprendere, vale a dire riflettere costantemente sui risultati della sua azione. Appare chiaro come il coinvolgimento diretto dei soggetti (e non oggetti) dell’intervento nella programmazione degli interventi sia di fondamentale importanza.

Informare è prassi necessaria e imprescindibile in ogni azione preventiva, ma non è sufficiente al passaggio effettivo delle conoscenze tra soggetti in interazione. In quanto, secondo Valli (1999), esso si realizza compiutamente attraverso la condivisione dei medesimi significati, in un’ottica di scambio, che a sua volta si può ottenere, secondo la nostra esperienza, con la partecipazione dei destinatari dell’intervento già dalla fase creativa del progetto di prevenzione.

Dalla riduzione del danno alla promozione della salute quindi, attraverso l’emersione di sintomi di salute, che parte dal riconoscimento della dignità umana e intellettuale di ogni essere umano che si incontra in strada, che è sempre un portatore di conoscenze significative, e prosegue nella promozione di iniziative che rispondano alle esigenze raccolte dagli stessi soggetti che ne saranno i co-realizzatori.

Il tutto pensato insieme (un pensare preventivo che si oppone ad un bombardare preventivo), in una cornice di spazio e di tempo il più possibile costanti e decisi collettivamente. Di conseguenza attraverso il gruppo, nelle sue declinazioni di operativo, co-gestito (istituzioni e movimenti) ed auto-gestito (spontaneo, dal basso), all’interno delle quali ruoli e compiti debbono avere differenziazioni chiare poiché, secondo la nostra esperienza e gli insegnamenti ricevuti, proprio nella consapevolezza di queste stanno i presupposti dell’esito del percorso progettuale. Viene da dire, citando Giorgio Consolini, referente per l’unità di strada dell’U.O.D.P. di Senigallia, «il gruppo trae collettivamente la coscienza del futuro dal pensare e confrontarsi intorno ad un programma o ad un compito».

Nuova fase istituente?

Il punto a cui eravamo arrivati, la nostra storia come operatori di strada, quindi, e la “strada” che stavamo frequentando, ci chiedevano una ridefinizione del percorso di intervento.

Tentavamo di riunire le fila di imput diversi e variegati provenienti dal territorio; richieste che andavano dall’esigenza di una informazione proveniente “dal basso”, cioè non preconfezionata, ma alla cui elaborazione potessero contribuire gli stessi destinatari; la voglia delle persone di analizzare anche da angolazioni diverse il fenomeno tossicodipendenza, magari allontanandosi da quel luogo comune che fa del “tossico” solo colui che si buca e poi gira “sfatto” per la strada; la sensazione che non più di eroina si deve parlare, non solo di siringhe e preservativi…che le sostanze sono tante, tanti sono i modi per assumerle e per dirla in maniera provocatoria, che la ricerca degli effetti è consapevole da parte degli assuntori a seconda dei contesti da affrontare. All’interno di questo momento confuso, ma produttivo (istituente), il riferimento al concetto di bulimia informativa di Leonardo Montecchi, ci permise di tentare di effettuare un “salto logico”. Se, come afferma Montecchi, viviamo un periodo dove, ad una iper – offerta di informazioni, corrisponde una ipo – dilatazione di tempi e spazi per rielaborare, e questa assenza di spazi per pensare le informazioni sta alla base della coscienza psicopatica, dove si agisce automaticamente, perché non provare a costruire qualcosa di simile a dei “contenitori per pensare”? e inoltre, se, come sembra, un’informazione verticale dall’alto verso il basso non passa, come si può fare per capovolgere questa prospettiva?

Il simbolo dell’informazione è oggi certamente (purtroppo) la televisione; il video e le immagini che trasmette rappresenta anche qualcos’ altro: qualcuno, sconosciuto, irraggiungibile, decide cosa e chi deve quotidianamente entrare nelle nostre case fino a diventare familiare…tentiamo di ribaltare totalmente la prospettiva, costruiamo noi una microtelevisione, tentiamo di fare in modo che tutto ciò che andrà in onda sia frutto di riflessioni, elaborazione di conflitti, litigi, ma che comunque ci sia condivisione a partire dalla progettazione di quello che sarà poi il prodotto.

L’idea di costruire una televisione di strada non è nuova, dal momento che la prima è già nata, nel 2002, a Bologna.

La realizzazione tecnica di una televisione di quartiere, peraltro assai economica, avviene mediante l’assemblamento di un trasmettitore, l’apparecchiatura tradizionalmente usata per la distribuzione del segnale video all’interno dei condomini. Il trasmettitore è formato da un modulatore, un amplificatore di segnale, un alimentatore e un’antenna di trasmissione e dai relativi cavi di connessione. Il segnale si inserisce nei coni d’ombra, ossia all’interno delle frequenze televisive assegnate alle emittenti ma da queste NON utilizzate; quindi non disturba alcun’altra trasmissione ed è in grado di raggiungere gli apparecchi Tv delle case, su canali liberi, fino ad una distanza di 700 – 1000 metri dalla fonte.

Prima accennavamo al rischio di provare ad accedere ad un finanziamento regionale per una attività “illegale”, che, essendo stato poi concesso, rappresenta una novità nel panorama dell’informazione.

In effetti, nonostante

• L’articolo 21 della Costituzione italiana garantisca a tutti i cittadini un pari diritto all’informazione. “Tutti i cittadini hanno il diritto di manifestare liberamente il proprio pensiero con la parola, lo scritto e ogni altro mezzo di diffusione”

• La sentenza n° 202 – 1976 della Corte Costituzionale sancisca la illegittimità del monopolio dell’etere.

Con la

• La Legge Mammì – 1984 che regolamenta la diffusione delle Tv private.

I privati possono trasmettere solo dopo aver avuto una concessione attribuita da un’apposita commissione governativa che si riunisce ogni quattro anni. Chi non ha la concessione non ha neanche il diritto a possedere le apparecchiature atte a trasmettere e rischia, oltre al sequestro di queste ultime, pene dai nove a diciotto mesi. Si sancisce, in definitiva, il duopolio RAI – Mediaset.

E nonostante

• 02/10/2003 Atto d’Impegno del governo.

Il Governo si impegna a non chiudere le televisioni di strada senza scopo di lucro, purché occupanti i coni d’ombra, in mancanza dei risultati di una indagine conoscitiva, dove, nei fatti si va verso una tolleranza nei confronti delle “TV street” (comunque illegali).

Di questo impegno non si trova traccia nella Legge Gasparri.

 

La realizzazione del progetto, man mano che si articolava diveniva chiaro anche nelle nostre teste. Non è tanto il risultato, la veste grafica, la produzione di filmati appetibili che ci interessava, quanto, piuttosto, il riuscire a creare piccole redazione che lavorassero sui progetti, gruppi di persone che si riunissero periodicamente, per riflettere. Questi “comitati redazionali” erano, in effetti, il punto cardine per cercare di far emergere i “sintomi di salute”, la creatività, la conflittualità all’interno di spazi propri e tempi adeguati, in una ottica di operatività di gruppo. La costruzione di una rete tra queste microredazioni doveva anche servire per allargare ancora di più la condivisione delle informazioni.

La decisione di allestire un furgone per renderlo idoneo alla trasmissione direttamente in strada, andava poi in questa direzione: era lo strumento, la tv, che raggiungeva le varie località anche fisicamente e non come segnale piovuto chissà da dove; una struttura mobile ci permetteva anche di continuare a lavorare secondo una logica per noi fondamentale propria delle filosofia della riduzione del danno…proporre, offrire un servizio e non attendere l’eventuale richiesta/domanda di aiuto.

Inoltre, nel corso del tempo, abbiamo anche notato come la telecamera sia un ottimo strumento di “aggancio”. Come affermato sopra, non sembra esserci la presenza di un tossicodipendenza da strada, di una piazza, un giardino (chiamate “scene aperte”), dove intervenire scambiando siringhe o distribuendo profilattici; all’interno di altre scene aperte, come rave party, invece di allontanare le persone, la videocamera, spesso funziona come strumento capace di avvicinare e, da lì, non infrequentemente cominciare a parlare anche di altre cose come, ad esempio, dell’uso di sostanze.

In questi ultimi mesi sono successe alcune cose che mi hanno fatto riflettere: a Madrid duecento persone sono state uccise in seguito ad un attentato terroristico di matrice islamica. Non è sicuramente questa la sede per ragionamenti di macro politica, ma un elemento mi ha colpito. Le elezioni spagnole, che nei sondaggi fino al giorno prima della tragedia vedevano in netto vantaggio il Partito Popolare al governo, hanno invece premiato l’opposizione socialista. A questo risultato ha contribuito massicciamente più che l’episodio in se stesso, il fatto che il governo abbia mentito sugli autori della strage, addossandone la responsabilità, per opportunità elettorale, su altri gruppi terroristici.

Ciò su cui riflettevo riguarda il comportamento di quasi tutti i mass media iberici che hanno, sin dal primo minuto, confermato la versione governativa e di come questo, però, non abbia impedito alla verità di venire a galla da subito (prima della giornata elettorale). Centinaia di migliaia di persone sono riuscite, quindi, a comunicare tra loro, a dubitare sul messaggio di quello che è stato un vero e proprio bombardamento mediatico. Su di un quotidiano nazionale, in riferimento a questa vicenda, ho letto un articolo dal titolo eloquente: “La televisione spenta dai telefonini”. Tra le altre cose racconta di come durante il giorno dell’attentato e quelli seguenti, sia aumentato l’uso degli Sms e, in numero fino a otto volte superiore la media, di internet. Si può tranquillamente ipotizzare che questa attivazione di controinformazione popolare, fosse tesa a bilanciare il messaggio univoco filogovernativo e di come, in ultima analisi abbia portato ad un vero e proprio terremoto politico (dal livello individuale si può influire su quello comunitario). Pochi mesi dopo lo stesso strumento, il contattare le persone capillarmente attraverso gli Sms, è stato utilizzato nella direzione opposta: tutti siamo stati raggiunti da un messaggio che ci invitava ad andare a votare per le elezioni Europee da parte della Presidenza del Consiglio. In questo caso, però, sembra che lo scopo per cui il messaggio era stato inviato non è stato raggiunto, anzi, spesso ha provocato quasi una reazione sdegnata, come se ci fosse stata una invasione della nostra privacy.

Questa breve dissertazione che mi sono concesso può essere recuperata alla luce delle considerazioni che facevo prima: una comunicazione, una informazione orizzontale, tra pari, può essere più efficace, compresa, condivisa e forse produrre cambiamento rispetto ad una comunicazione verticale, unidirezionale orientata dall’alto verso il basso.

Conclusione del progetto: la sensazione di esserci nuovamente istituzionalizzati

Questa breve parte riguarda l’ultimo periodo progettuale, terminato a giugno.

La sensazione che ci pervadeva, mentre ci avvicinavamo alla scadenza del progetto e discutevamo se presentarlo nuovamente per un eventuale rifinanziamento, era un misto di appagamento, soddisfazione per come andavano le cose, noia, gratificazione.

Due punti ci hanno fatto prendere la decisione di non presentare la domanda per accedere ai fondo per il prossimo anno:

il primo fa riferimento alla nostra figura di operatori, comunque pagati, all’interno dei comitati redazionali; questi, nelle nostre intenzioni e come spiegato da subito, sono costituiti da persone aventi uguale dignità decisionale, secondo la logica – una testa un voto -. La domanda che spesso ci veniva rivolta, soprattutto in quest’ultimo periodo, era pressappoco questa: “Ma questo possiamo mandarlo in onda?”, quasi con l’aspettativa che dovessimo essere noi operatori ad avere l’ultima parola sul palinsesto, o come se fossimo i “censori”. Abbiamo a lungo riflettuto sulla tematica del potere e come questo ci fosse, nonostante tutti i nostri sforzi, riconosciuto in maniera superiore agli altri.

Legato a questo aspetto ve ne è un altro: abbiamo comunicato agli enti con cui collaboravamo (Unità Operativa Dipendenze Patologiche, Cooperativa) l’intenzione di terminare il nostro percorso come operatori, con la disponibilità di aiutare eventuali altre figure che volevano sostituirci, e l’impressione (pur ammettendo l’errore di aver preso la decisione pochi giorni prima delle scadenza della presentazione della domanda di finanziamento) che abbiamo avuto è stata quella che il progetto si identificasse con le nostre persone, cioè quella di Yuri e di Roberto. Un progetto che mirava alla condivisione si risolveva alla fine in una sorta di circolo autoreferenziale?

Un secondo punto è legato all’aspetto economico: oltre al fatto di scoprirci a pensare sempre di più allo scarso guadagno che ottenevamo rispetto al lavoro fatto (giusto o no questo pensiero, non penso sia un discorso di avidità, il “pretendere” un corrispettivo all’altezza di quello che si fa), riflettevamo anche sull’asimmetria che inevitabilmente si veniva a creare all’interno dei gruppi. Due membri erano pagati, dovevano anche però rispettare un monte ore ecc., gli altri lo facevano per interesse, per piacere, per stare insieme…

Denaro, potere, sono tra gli esempi tipici di analizzatori, cioè di eventi che rivelano aspetti nascosti di una istituzione…la percezione era quella di esserci di nuovo istituzionalizzati, che tutto sommato potevamo continuare in questo modo, perché il tutto sembrava procedere, ma che la spinta creativa si stava esaurendo, creando un vero e proprio paradosso visto i presupposti del progetto, dove la creatività era proprio uno degli aspetti più importanti che doveva emergere come sintomo di salute.

Grazie a Zanzibar, la cooperativa che ci ha sostenuto in questi anni e che ha accettato di lasciarci il materiale per trasmettere, stiamo tentando, ora, di cominciare una nuova fase: la speranza è quella di esserci in parte de-istituzionalizzati, rinunciando allo stipendio ed al rapporto di maggior potere che ci dava il fatto di disporre per progetto delle attrezzature, e di continuare, con il gruppo in assoluta parità….vedremo!!!

1 E’ possibile sintetizzare tali concezioni attraverso la descrizione di tre movimenti fondamentali: 1) istituente, forza attiva che produce qualcosa di nuovo, poco definita, magmatica. Si tratta di un momento creativo, instabile, fortemente portato al mutamento di uno stato di cose; 2) istituito, si caratterizza per definizione di codici, percorsi chiari, norme condivise; 3) istituzionalizzazione, il momento in cui c’è il decadimento massimo del processo istituente. Rimane solamente l’istituzione che si autoalimenta, si burocratizza e perde ogni slancio creativo in quanto si è perso il fine e dominano i mezzi. I mezzi giustificano se stessi e si automantengono.

2 Gruppo Autogestito Informativo Alternativo Droghe, composto da una decina di adolescenti dai 16 ai 20 anni, che si è proposto, in collaborazione con l’Unità di Strada, la realizzazione di un laboratorio di comunicazione sulle tematiche inerenti le sostanze stupefacenti. Il gruppo ha affrontato un percorso di studio autoformativo e realizzato materiale informativo diretto ai pari, incontri nelle scuole superiori ed è stato premiato al convegno “Il sistema di interventi sulle dipendenze: la cornice europea, le evidenze scientifiche e le buone pratiche”, svoltosi a Pesaro nel febbraio 2004, per il miglior poster presentato.

3 E’ un momento, una persona, un fatto che fornisce la spiegazione dell’intera situazione. Si tratta di un evento che rivela un qualche aspetto nascosto (es. sessualità, denaro, potere).

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