Laboratorio infermieristico di comunità

L’idea è quella di organizzare il lavoro infermieristico indagando i bisogni delle persone.

Lavorare sui bisogni vuol dire cercare strade possibili in direzione della loro soddisfazione. Vuol dire provare a risolvere i problemi dopo averne preso coscienza.

L’infermieristica dei bisogni ha come primo problema l’intercettazione.

Intercettare un bisogno vuol dire stipulare un patto con la persona e poi essere disposti ad ascoltare. Attraverso l’ascolto è possibile intercettare il bisogno.

Quando si mette in campo la parola “ascolto” se ne chiamano altre implicitamente. L’ascolto funziona se vi è un soggetto parlante e/o comunque in grado di comunicare segnali percepibili.

Se vi è chi parla e chi ascolta vi è anche un canale di comunicazione ed un linguaggio che sul canale scorre più o meno fluidamente.

Liberare il canale di comunicazione da attriti, renderlo “liscio” e praticabile, vuol dire disporsi all’ascolto.

Intercettare un bisogno pone immediatamente davanti ad una scelta: quale linguaggio utilizzare per comunicare?

Il teatro è un possibile linguaggio di comunicazione di bisogni. Costruire uno spazio teatrale “liscio” e praticabile, vuol dire porsi nella condizione di intercettare i bisogni e lavorare sulle possibili soluzioni.

Se il teatro è il linguaggio per catturare bisogni, una specie di acchiappafantasmi, ora è necessario definire uno spazio, un ambito all’interno del quale costringere, imprigionare tali bisogni chiamandoli a gran voce allo scoperto. Potremmo definire questo spazio, un luogo ovvero un ambito con caratteristiche specifiche e riconoscibili, con una specie di identità, di storia. Un luogo, come scrive M. Augé, è qualcosa di diverso da un non luogo; mentre il primo infatti ha, come abbiamo visto, specifiche caratteristiche di identità e storia, il non luogo è qualcosa sempre uguale ad altri non luoghi privi di identità ed assolutamente omologati, aspecifici, generici, poveri di significati importanti ed incapaci di produrre senso se non quello che ha l’aspetto dell’inutilità, del consumo fine a se stesso, dell’assenza di relazioni umane.

E’ possibile costituire questo ambito all’interno di una comunità terapeutica per tossicodipendenti?

Dove chiamare i bisogni allo scoperto?

Dove costringerli alla luce del sole?

Un luogo è assolutamente possibile!

Il luogo possibile è un cerchio ideale da segnare sulla terra e su cui sedere sopra a breve distanza l’uno dall’altro. Il cerchio può chiudersi all’esterno se le persone che lo compongono si tengono per mano costituendo improvvisamente un dentro ed un fuori dal cerchio, un dentro ed un fuori da noi.

Ma il cerchio può anche aprirsi all’esterno e lasciare transitare il mondo verso di noi.

Il cerchio è così innanzitutto una possibilità di comunicazione tra noi ed il mondo.

Se ci teniamo per mano inoltre, vediamo che è possibile inviare segnali a destra ed a sinistra, segnali che cominciano a passare velocemente tra di noi: il cerchio è allora anche la possibilità di comunicarci altri linguaggi all’insaputa del mondo.

Il cerchio è in definitiva una potente macchina di comunicazione che ci consente connessioni multiple tra noi ed il mondo.

Questa è l’identità del cerchio ovvero la sua essenza macchinica che consente funzionamenti comunicativi tra le persone e tra queste e l’ambiente che li circonda.

Senza cerchio sì è privi di luogo, sì è atopici, si è vittima di uno spaesamento, di una deterritorializzazione che è in ultima analisi l’isolamento, l’emarginazione, la fuga.

Definirei allora il LABORATORIO INFERMIERISTICO, come una sinergia di luoghi, linguaggi, bisogni e funzionamenti macchinici, volti alla ricerca di strategie di liberazione dalle oppressioni che quotidianamente si strutturano sul corpo e sulla mente determinando, a lungo andare, la perdita della salute.

Nel laboratorio infermieristico, come in un cantiere, c’è un lavoro comune, una continua produzione di affetti, relazioni, comportamenti, pratiche di vita, affinché le persone qui messe a lavoro, possano costruire percorsi di vita motivati dal desiderio, concentrati sulla cura di sé e sull’attenzione agli altri.

Laboratorio infermieristico

Il linguaggio-Il teatro Il luogo-il cerchio

Intercettare i bisogni-costruire strategie di liberazione

Metodologia del processo attoriale e tecnica infermieristica

Il lavoro comincia con la stipula del “Patto tra infermiere ed utenti”.

Seduti in cerchio, gli utenti cominciano il lavoro con l’infermiere che porterà ad individuare i bisogni sui quali concentrarsi al fine di soddisfarli, se possibile.

Il metodo infermieristico, come si è detto, preferirà il linguaggio del teatro per chiamare allo scoperto i bisogni.

Tale metodo di ricerca dentro di sé, è distinto in 3 momenti diversi e di durata assolutamente variabile. Ogni momento trova nella costituzione del cerchio dei partecipanti seduti a terra, il suo punto di partenza all’inizio ma anche il suo punto di arrivo alla fine.

I momenti di lavoro sono così definiti:

  • -LIVELLO PRE-ESPRESSIVO (movimento nello spazio extraquotidiano)
  • -LIVELLO ESPRESSIVO (individuazione dei bisogni)
  • -MESSINSCENA (libera e facoltativa-soddisfazione dei bisogni)

Livello pre-espressivo

E’ la fase cosiddetta del training. Ha come obiettivo quello di preparare l’utente al momento in cui, attraverso il processo creativo, prenderà coscienza dei propri bisogni per liberarsene attraverso strategie mirate di rappresentazione teatrale.

L’infermiere invita a compiere azioni che impiegano il corpo e la mente dei partecipanti che si muovono, inspirano ed espirano lentamente, saltano, emettono suoni vocali con assoluta attenzione ai particolari, completamente disinteressati da tutto ciò che può considerarsi quotidiano: il corpo tende a liberarsi dai soliti schematismi, una nuova realtà si dispiega davanti agli occhi, è un mondo dove l’attenzione si restringe al proprio corpo in movimento anziché sul significato ordinario dei gesti e delle parole.

L’infermiere, dopo aver illustrato le tappe del lavoro da svolgere insieme, effettua un training psico-fisico-vocale perché il linguaggio del corpo, il suono della voce, un primo contatto con i propri bisogni e quelli degli altri, risultino finalmente liberati da ogni tipo di resistenza.

E’ questo il momento in cui l’infermiere educa i corpi alla presenza nello spazio, alla relazione con se stessi e con gli atri ma anche alla percezione sensoriale, alla memoria, all’attenzione, alla meditazione.

Livello espressivo

In questa fase l’infermiere ha in possesso tematiche da proporre ai partecipanti perché siano oggetto di improvvisazione teatrale libera. D’altronde, il lavoro di training della fase pre-espressiva, dovrebbe aver conferito a tutto il gruppo una certa spontaneità e soprattutto una certa potenzialità creativa.

L’oggetto d’improvvisazione che l’infermiere propone ha sempre a che fare con elementi personali, emozioni, con questioni che appartengono alla vita ed agli affetti degli utenti. L’improvvisazione, in realtà, tende a rivelare il bisogno sul quale lavorare insieme successivamente.

Potremmo definire questo momento, mutuando il termine dal Teatro dell’Opresso di A. Boal, momento della coscientizzazione ovvero del disvelamento del bisogno, dell’oppressione rispetto alla quale impegnarsi al fine di disegnare strategie drammaturgiche di liberazione.

Messinscena

E’ questo il momento in cui, presa coscienza dei bisogni sui quali lavorare, l’infermiere invita i partecipanti, a partire da tutto il materiale scenico accumulato attraverso le libere improvvisazioni, ad una formalizzazione, scrittura del testo, ripetizione delle azioni ovvero ad un montaggio che sia confronto tra lavoro personale e testo drammaturgico.

La messinscena contiene la possibile strategia di liberazione dall’oppressione: tutto il lavoro di ricerca, trova ora il suo compimento nel soddisfacimento dei bisogni messi in evidenza.

Processo attoriale

Livello pre-espressivo Livello espressivo

Messinscena

Lavoro sui bisogni della persona ovvero del corpo e della mente

Sul senso di inutilità

Una questione importante è l’impressione di non contare nulla, di non essere di alcun interesse per gli altri.

Il bisogno su cui lavorare in tal caso sarebbe:

1) bisogno di sentirsi utile a qualcuno.

La percezione della propria inutilità spinge all’isolamento.

Una possibile pratica di utilità: lui cade all’indietro ed io evito che si faccia male. Dapprima lui non si fida di me. Sente forse il mio isolamento. Ma poi si fida. Si lascia andare sicuro di non farsi male.

Intervista sull’inutilità.

“Ti sei sentito mai inutile? Quando? Racconta”

Mettiamo in scena un “senso di inutilità”. Sostituiamo i protagonisti della storia con altre persone. Troviamo soluzioni al problema. Recitiamo le soluzioni.

Analizziamo: prima era così, adesso invece non è più così.

Sull’impossibilità di stare nel conflitto

La questione riguarda l’incapacità di resistere in un contesto conflittuale perdendo di vista ogni ipotesi di soluzione della crisi.

Il bisogno è:

  1. bisogno di far fronte ad una situazione di conflitto
  2. bisogno di restare nel discorso evitando la fuga
  3. bisogno di andare avanti, di non interrompersi, di continuare a vivere

Anche qui, come sopra, il chiamarsi improvvisamente fuori dalla disputa, è un andare verso la solitudine, è la scelta dell’emarginazione, è la fuga dalla responsabilità di dare soluzione alla crisi.

Una pratica è la proposizione della inutilità della fuga: se io vado via, trovo sempre un conflitto che si ripropone, c’è sempre qualcuno da qualche parte che cerca lo scontro. E’ necessario che io mi fermi e trovi una soluzione. Se io do soluzione alla crisi, smetto di correre e posso riposare, posso prendere fiato. Ricevo un bicchiere d’acqua. Sto bene dopo aver trovato la soluzione. La fuga è innanzitutto dispendio inutile di energia. Anche isolamento. Ma soprattutto sfinimento.

Urlo qualcosa in faccia a qualcuno che scappa, corre all’impazzata fino a trovare qualcun altro che continua ad urlargli contro; di nuovo la fuga, di nuovo urla. C’è un momento in cui c’è necessità di fermarsi. Ora, dopo aver bevuto dell’acqua, troviamo soluzioni possibili. La prima è: FERMARSI ovvero stare dentro il discorso.

Sull’impossibilità di vivere spazi aperti

Molte persone sono agli arresti in Comunità, vengono quindi da esperienze di detenzione carceraria più o meno lunghe. All’inizio c’è sempre una certa difficoltà a stare all’aria aperta, addirittura la libertà può diviene motivo di frustrazione e sofferenza.

Il bisogno è:

  1. bisogno di capire che libertà è responsabilità
  2. bisogno del senso della misura, del limite oltre il quale l’azione si fa inconsulta, smisurata

La perdita della misura spinge a comportamenti esagerati: si può essere eccessivamente zelanti e svolgere esageratamente la propria funzione o, al contrario, si può essere assolutamente fuori ruolo e rinunciatari rispetto ai propri obblighi. Sembrerebbe che, il vivere improvvisamente senza costrizione carceraria, dia un senso di confusione tale da non capire dove comincia e dove finisce la libertà di fare le mie cose.

La coscienza dello spazio, soprattutto nella fase di training pre-espressivo, è un elemento centrale del Laboratorio Infermieristico che utilizzi il linguaggio teatrale come metodo di cura. Capire lo spazio vuol dire muoversi da solo ed in gruppo occupandone sempre i vuoti; capire lo spazio vuol dire toccare ogni cosa e descriverla, annusarla per raccontarne l’odore o la puzza. Capire lo spazio è anche capire lo spazio degli altri e quindi incontrarli e salutarli ripetutamente oppure fermarsi ogni volta e compiere un gesto che sia domanda di relazione e quindi attendere la risposta.

Sulla rabbia e sull’incapacità di dare a questa una giusta direzione

La rabbia è un sentimento che appartiene a tutti gli uomini ma non tutti sono capaci di dare a questa una giusta direzione.

Spesso a causa della rabbia si compiono azioni inconsulte e violente delle quali siamo chiamati a rispondere anche duramente.

In definitiva il liberarsi in maniera errata della propria rabbia può determinare gravi conseguenze.

E’ necessario capire quale sia la giusta direzione, quali comportamenti garantiscono tale liberazione senza produrre danni per sé e per gli altri. Esiste una via “civile” della rabbia?

Il bisogno è:

  1. bisogno di scaricare la rabbia
  2. bisogno di liberare me stesso senza provocare danno alcuno
  3. bisogno di individuare possibili vie di liberazione

In questo caso più che in altri, il Teatro è un luogo possibile di liberazione. La rabbia a Teatro può divenire personaggio, testo drammaturgico, azione fisica priva di senso. A Teatro è anche possibile osservare la propria rabbia allo specchio: io sono di fronte a te e do sfogo alla mia rabbia urlando. Tu, come fossi uno specchio, mi rimandi dapprima la stessa rabbia ma poi me ne mandi la forma al contrario (se io rido, tu piangi; se io grido tu fai silenzio…).

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