La dinamica della passività in una casa di riposo per anziani

Espongo alcune linee di approccio alla problematica della passività del vecchio nelle Case di Riposo per anziani. Possiamo dire che tra passività, solitudine e una convivenza assai deteriorata trascorre la vita dei residenti in queste istituzioni.

L’anziano, da quando lascia di essere un soggetto produttivo, ha socialmente aggiudicato un ruolo passivo. In quel momento, per tutta una serie di ragioni nelle quali non ci dilunghiamo, l’anziano diventa un peso, una molestia specialmente nella misura in cui non si deposita in lui più nessuna aspettativa, non ci si aspetta nulla da lui, salvo la morte.

La perdita di un ruolo attivo suppone che l’anziano non può più dare e pertanto nemmeno può chiedere. Solo ricevere. Così come non si concepisce che possa avere un progetto di vita, si trasforma e resta sempre più escluso dalla dinamica sociale e familiare.

Le Case di Riposo per anziani compiono una doppia funzione: consolidare l’emarginazione sociale di cui è oggetto l’anziano e lavare la colpa che, in questo caso, produce l’emarginare. Questo si ottiene offrendo ai ricoverati un livello di cura e servizi difficili da raggiungere in altri luoghi. Fino all’estremo di considerare il fatto di entrare in una Casa di Riposo un privilegio che pochi si possono permettere.

Il rafforzamento dell’emarginazione sociale dell’anziano, facendo compatibile questa funzione con l’anteriore, deve passare per la creazione di una struttura istituzionale che non permetta al vecchio di uscire dal ruolo socialmente aggiudicato, che, anzi, lo mantenga e lo rafforzi.

Cosicché i ruoli attivo – passivo sono fortemente giocati all’interno delle Case di Riposo. Il ruolo attivo è depositato nel personale (lavoratori) che, dal punto di vista dello stereotipo sociale, ha la funziona di dare all’anziano tutto quello di cui può aver bisogno; è per questo che è lì, per dare. il ruolo passivo rimane per l’anziano, al quale tutto ciò che si chiede è che riceva quello che gli si dà. Questa aggiudicazione di ruoli è mantenuta rigidamente e l’istituzione si struttura sopra di essa. Di fronte alla passività dell’anziano la risposta istituzionale è l’offerta di un programma di attività cui questi possa iscriversi.

Osserviamo ora la portata di questa risposta alla luce della dinamica psicologica cui si deve far fronte.

Proporre all’anziano il suo ingresso in una nuova attività obbliga che a questi si riproponga il problema dei propri limiti. Pensare a quello che può fare è intimamente legato a quello che ormai non può più fare a causa del declino che soffrono le sue capacità e facoltà.

Lo stabilirsi di nuovi limiti è il fatto che può permettere che l’anziano stabilisca un progetto concordato con le sue possibilità reali, realizzabile e possibilitante. Però può anche supporre la constatazione di nuove perdite, cosa che richiederà il lavoro di “elaborazione del lutto” a causa della perdita sofferta e del dover far fronte al timore del fallimento, comprovando che “non posso fare quello che voglio”.

In una occasione feci in una Casa di Riposo per Anziani della provincia di Madrid una ricerca istituzionale. Uno dei lavori che lì sviluppai fu il coordinamento di alcuni gruppi operativi con i vecchi su come occupare il tempo libero. Prima che cominciasse il gruppo, si informavano gli anziani sul programma di attività che si stava organizzando e li si invitava a partecipare alle stesse, Sistematicamente, i gruppi si dividevano in due sub-gruppi, uno dei quali negava la possibilità di fare qualsiasi cosa sulla base dell’esistenza di grandi handicap (deficienze fisiche) che lo impedivano, mentre all’altro gruppo qualsiasi attività proposta sembrava realizzabile. I due gruppi mostravano due maniere di verse di fare fronte al problema dell’entrata in una nuova attività, però nessuna delle due permetteva il pensarlo in termini di possibilità reali, per cui si evitava il riproporsi il problema dei limiti.

In questo modo la passività, non permettendo la constatazione del grado del declino, evita che si scateni il processo sopra descritto, proteggendo dalla depressione. La non comunicazione e la solitudine nella qual vivono gli anziani serve per questo stesso obiettivo.

La comunicazione con l’altro mette in gioco i meccanismi di identificazione: “è vecchio come me, posso essere tanto deteriorato come lui, soffriamo la stessa situazione di abbandono familiare” ecc., e questo conduce a pensare alla propria vecchiaia e alle proprie circostanze – con la conseguente angoscia dello scoprire tante perdite. La non comunicazione permette un controllo maggiore della identificazione con la parte depressa dell’altro e una maggior efficacia dei meccanismi di negazione e proiezione: “il vecchio è quello, le cose che succedono a lui non sono le stese che succedono a me”.

Per queste ragioni qualsiasi iniziativa o progetto che un anziano proponga è sistematicamente boicottata dagli altri per mezzo dello scherno o di critiche distruttive. In un gruppo di anziani che posteriormente organizzammo, uno degli integranti raccontava che aveva preparato un piccolo orto nel quale piantava cipolle, senza però dirlo a nessuno; non solo, ma anche che l’orticello era in uno dei terreni che circondavano la Casa di Riposo e debitamente camuffato: “se non lo avessi sistemato li’ e avessi messo le cipolle in qualsiasi altro posto della casa di riposo, sono sicuro che andrebbero tutti là a distruggerlo”. L’anziano aveva cominciato il suo racconto dicendo: “Vi farà ridere”. Ossia, l’iniziativa personale deve essere sviluppata in forma clandestina. Mantenendosi nella passività generalizzata si può conservare l’illusione: “potrei farlo, ma non voglio”. Quando qualcuno si differenzia mostrando quello che può ancora fare, si apre immediatamente il discorso, come vedevamo prima, di quello che non si può fare e allora, a causa della discriminazione che l’altro effettua, si corre il pericolo che l’illusione crolli, e che il “potrei farlo ma non voglio” si trasformi nel “vorrei farlo, ma non posso”.

Da come sia la relazione personale – ricoverato dipende che questa dinamica si risolva in un circolo vizioso o possa aprirsi a altri processi differenti. perché l’anziano possa lasciare di essere passivo è necessario abbia la possibilità di essere attivo. E questa possibilità gli viene negata se gli offriamo un programma di attività in cui si conserva la aggiudicazione dei ruoli che abbiamo visto anteriormente. Quello che ci preoccupa come psicologi sociali è che se davanti alla passività dell’anziano il personale si fa carico dell’attività e questi due ruoli funzionano rigidamente – gli uni danno e gli altri ricevono – senza nessuna possibilità di interscambio, si produce una relazione malata, stereotipata. Uno di questi ruoli non può essere modificato senza che questo, a sua volta, supponga una modificazione dell’altro. Per questo poniamo il problema della passività nei termini di una relazione. La passività dell’anziano non ha possibilità di soluzione finché non si ponga pure come problema l’attività del personale della Casa di Riposo.

Il fatto che nell’istituzione si produca una dinamica differente, più possibilitante, dove l’anziano possa esplorare i suoi limiti e deprimersi a causa delle sue perdite, però anche pensare a quello che farà, non è una questione di volontarismo, qualcosa che basta proporsi: tutto si risolverebbe, se così fosse, in un problema di cattiva volontà e non pensiamo si tratti di questo. Siamo invece convinti che è molto difficile sopportare la depressione del vecchio, accompagnarlo nel suo tempo di elaborazione, sopportare un vuoto di attività fintantoché l’anziano comincia a chiedere, condizione sine qua non per stabilire un intercambio e bisogna cominciare a riempire di contenuti il lavoro da realizzare a partire dai bisogni dell’anziano, non a partire da quello che noi crediamo lui abbisogni.

Se osserviamo prima come la passività difende l’anziano dalla depressione, l’attività del personale, come reazione a quella depressione, si costituisce, a sua volta, in una difesa, una barriera per impedire che quello che succede dall’altra parte possa ripercuotersi in loro. Qui, in questo punto, troviamo la difficoltà che impedisce possa realizzarsi un interscambio di ruoli. Si tratta di smontare tutto un sistema difensivo con la conseguente mobilitazione di angosce da tutte e due le parti. Il vecchio attivo lascia senza funzione il personale incaricato di organizzargli l’attività. Quest’ultimo dovrà a partire da ora, cominciare a pensare cosa fare, prefigurare nuove occupazioni in funzione di un interscambio di attività differenziate. Da adesso, anche l’anziano ha una via di accesso all’attività perché questa ultima non è più depositata unicamente nelle mani del personale.

L’istituzionalizzazionare l’attività nel personale comporta varie e gravi conseguenze. Tutta l’attività che si sviluppi nelle Case di Riposo viene canalizzata attraverso dei percorsi istituiti e qualsiasi iniziativa che non parta da essi si tenterà di assorbirla o neutralizzarla, rinforzando con ciò la clandestinità di cui prima parlavamo riferendoci al vecchio delle cipolle.

Vediamo la seguente situazione (emergente) istituzionale, nella casa di Riposo della quale ho già parlato, da qualche anno, un gruppo di anziane che cominciarono a lavorare in una sartoria che costituirono per propria iniziativa per fare vestiti a dei bambini poveri. Quando si creò il Dipartimento di Terapia Occupazionale, si volle che queste anziane ne facessero parte, includendo questa attività tra quelle sviluppate dal Dipartimento. non solo non è stato possibile realizzarlo, ma nel momento in cui si installò il Dipartimento nella stessa sala dove c’era la sartoria, le anziane costruirono una specie di separazione tra questa e il dipartimento con una barriera di tavoli. Non erano disposte a cambiare qualcosa che erano riuscite a fare con il proprio sforzo, il loro progetto, per quell’altro che, improvvisamente, appariva come un “dato” del Dipartimento di Terapia Occupazionale. In ultima analisi, le anziane dicevano che l’attività non è di proprietà del personale. Il bisogno di proteggersi alzando una barriera di tavoli da quello che, in questo caso, si identificava come una invasione, ci fa pensare con che predisposizione l’anziano ascolta quello che gli si dice.

Ricordo adesso qualcosa che ci successe. Avevamo deciso di fare una riunione generale con gli anziani che servisse per aprire il dialogo, e la nota che avevamo mandato a ciascuno di loro per convocarli diceva testualmente: “…per verificare se è possibile o no stabilire un lavoro in comune tra noi e, in caso affermativo, definire quegli aspetti o temi che ci interessa realizzare insieme”. Si presentò a questa riunione il 16% dei convocati. Con una parte di loro organizzammo dei gruppi operativi, compito dei quali era “la convivenza”. Però la domanda che ci facevamo costantemente era che cosa succedeva con gli altri (i restanti anziani); come avvicinarsi a loro, una incognita. Decidemmo di salire ai piani superiori, di passeggiare nei reparti. Da principio non succedeva niente, però la seconda o terza volta che siamo passati nello stesso corridoio, alcuni anziani cominciarono a guardare per la porta socchiusa e a salutarci. Poi, alcuni, sempre di più ci invitavano ad entrare nella loro stanza a prendere qualcosa per parlare con noi. Noi non accettammo l’invito dicendo che in effetti, parlare con loro era quello che volevamo, però non bevendo un bicchiere di vino, e che poco prima li avevamo invitati nella sala di riunione per parlare e non erano venuti, cosicché eravamo un po’ irritati e ora non volevamo parlare con loro. Gli anziani rimasero stupiti, però nessuno si arrabbiò con noi. Si limitarono a domandare quando ci sarebbe stata la seguente riunione.

Era chiaro che non si aspettavano una risposta così al loro invito. Non si aspettavano, e questa è la predisposizione cui accennavamo, che qualcuno avesse veramente interesse a parlare con loro, che la loro apatia infastidisse qualcuno.

Da quanto detto possiamo concludere che l’affrontare la problematica della passività nel ricoverato mette in movimento un processo di cambiamento in tutta l’istituzione. Bisogna tornare a stabilire, ridefinire funzioni e ruoli e, come ultima conseguenza, obbiettivi.

Si apre un processo che mette in gioco tutte le contraddizioni, in un lavoro anteriore, sviluppavo il come questo processo condusse, nella Casa di Riposo cui mi riferisco, alla creazione di una Equipe Interdisciplinare, come “luogo” necessario per continuare a pensare e a lavorare la nuova problematica. Nuova perché forse adesso si può pensare dal punto di vista della vita e non da quello della morte.

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