Il trauma: una ricerca nell’ambito individuale della Concezione Operativa di Gruppo

di Simona Maini, Agnese Marchetti, Elena Marini, Arianna Occhio, Marella Tarini


INTRODUZIONE

Il nostro gruppo di ricerca si costituisce nel 2010. Il tema intorno a cui ci raggruppiamo è il trauma. Sicuramente non è casuale che 7 donne (rimaste poi 5) siano attratte da una riflessione su questo argomento.
Non è casuale. Ci diciamo, sorridendo, che siamo nella pancia, nell’antico, nel primordiale, e chissà quale emergente rappresentiamo nella Scuola “J. Bleger”, o cosa sentiamo su di noi depositato per immergerci in un pozzo già a prima vista così profondo.


L’INIZIO.

All’inizio la strada è stata tracciata dal prof. Bonfantini che, durante una lezione sulla metodologia della ricerca, ci parla del “fatto sorprendente” come motore di ogni ricerca degna di essere chiamata tale.
Il generatore della ricerca è il fatto sorprendente, il nuovo che stupisce e non ha spiegazione immediata nel già noto.
Di fatti sorprendenti ne emergono almeno 3 nel corso delle condivise riflessioni all’interno del nostro gruppo di ricercatrici. Il comune denominatore è comunque la parola “trauma”.

PRIMO FATTO SORPRENDENTE
E’ la non corrispondenza tra entità del trauma ed effetto.
Un apparente piccolo trauma può produrre effetti psichici importanti, talvolta devastanti, e viceversa. Semplificando, visualizziamo la situazione in un contenitore che ha un contenuto più o meno fluido, più o meno organizzato, che venga colpito da un corpo contundente e si incrini. L’entità dell’incrinatura sarà la risultante tra la forza del colpo e lo spessore del contenitore. E quello che si fa strada, il contenuto che fuoriesce, dipenderà sia dall’entità dell’incrinatura ma anche dall’essere più o meno fluido del contenuto, dal suo essere più o meno grezzo, disorganizzato, instabile . La cosa si complica laddove la demarcazione contenente\contenuto non è così netta. In quelle personalità che hanno già di per sé falle e varchi, risultati, forse, non di grandi eventi ma di tanti ripetuti piccoli quotidiani microtraumi.

SECONDO FATTO SORPRENDENTE
E’ il trauma che, in alcuni casi, ripete se stesso, si autoriproduce. Per usare un paragone biologico, in alcuni casi sulle forze riparative, rigenerative, che portano naturalmente la ferita a guarigione, prevalgono forze di automantenimento della ferita, che si cronicizza, diventa ulcera torbida, infetta, o peggio, ancora più subdolamente, guarisce per poi ricomparire, riprodursi, in una specie di memoria del danno che non vuol guarire. Un Alien che riproduce se stesso e non vuol dimenticare…. che sia come diceva Brecht che è la fragilità della memoria che dà forza agli uomini?….

CHI E’ STATO SBATTUTO A TERRA SEI VOLTE
COME POTREBBE RISOLLEVARSI LA SETTIMA
PER RIVOLTARE IL SUOLO PIETROSO
PER RISCHIARE IL VOLO NEL CIELO?
E’ LA FRAGILITÀ DELLA MEMORIA CHE DA’
FORZA AGLI UOMINI
(Brecht, Elogio della dimenticanza)

TERZO FATTO SORPRENDENTE
In un gruppo di operatori che assistono al trauma provocato da parte di un utente ad uno di loro, o al racconto di questo trauma, accadono cambiamenti significativi.
Nel pensare a questi interrogativi è inevitabile cercare una definizione comune sui termini chiave: Trauma” e Memoria.


TRAUMA

Parola innanzi tutto somatica: lesione prodotta accidentalmente da agenti meccanici la cui azione vulnerante è superiore alla resistenza dei tessuti su cui operano. Ma Trauma è anche parola psichica per eccellenza.
Ci colpisce il concetto di Freud di post definizione di un evento come trauma.
All’inizio, quando un evento accade, è COMMOZIONE e SPAVENTO.
La COMMOZIONE: con questo si intende l’aspetto somatico dell’evento, che provoca un’affluenza di eccitazione che irrompe e pone in pericolo l’integrità.
Il soggetto non può reagire mediante scarica adeguata o elaborazione psichica.
Lo SPAVENTO: è l’aspetto psichico dell’evento. Il termine usato da Freud è “Hilflosigkeit” che letteralmente è: lo stato di impotenza dell’originale e naturale condizione del cucciolo d’uomo.
All’inizio l’evento è commozione e spavento. Viene rimossa la memoria di qualcosa che solo più tardi sarà definito trauma.
Ancora, abbiamo lavorato molto sul termine Memoria con le infinite declinazioni, il rapporto che ha la memoria nella definizione, risoluzione o mantenimento del trauma.
In questo girovagare senza mete precise, ma ricco di suggestioni, ci guidano alcune letture. Ma anche libere associazioni, frammenti di film, di libri, ricordi, immagini infantili, racconti brevi e sinceri. Forse è a questo punto che, più o meno consapevolmente, il gruppo prende una svolta.
Diviene evidente:

  1. l’eccesso di ipotesi;
  2. ricercando, verifichiamo che, alla fine, le ipotesi non sono particolarmente sorprendenti. Ma non è questo il problema. Anzi, forse questo presupposto della sorpresa è fuorviante, perché rischia di far sembrar inutile un lavoro di studio che per noi è stato molto produttivo;
  3. il lavoro rischiava di diventare un piacevole ma infruttuoso percorso circolare, senza una meta precisa, senza un tempo di scadenza;
  4. infine, il problema sostanziale che si fa evidente è: in che consiste la ricerca ? Chi ricerca su chi?

Il Trauma nell’ambito individuale

Il tema del trauma è vastissimo ed affrontabile da infinite prospettive, è ritornato negli ultimi anni all’attenzione dei clinici e dei ricercatori dopo essere stato adombrato per molto tempo nella formulazione del pensiero psicoanalitico.
Nella ricerca, l’ambito a cui ci siamo riferite è quello individuale, ed il trauma è stato inteso non tanto come evento, quanto come esperienza soggettiva che si sviluppa in processi fenomenici successivi. Naturalmente, la nostra teoria di riferimento è la Concezione Operativa di Gruppo, quindi per noi, concettualmente, qualsiasi esperienza soggettiva, individuale, avviene all’interno di una dimensione gruppale, sia se inserita in un contesto istituzionale che collettivo.

Questo, anche quando l’esperienza sia vissuta da un soggetto “isolatamente”, in quanto entrano in azione, nella organizzazione della risposta all’evento traumatico, le rappresentazioni interne che il soggetto ha del gruppo al quale appartiene o al quale è appartenuto, in sostanza le dinamiche relative al suo gruppo interno primario o ai suoi gruppi di appartenenza successivamente internalizzati nel corso della sua esistenza.
Cosicché la nostra ricerca si è incentrata sulla investigazione di come si possano essere prodotte risposte ad un evento traumatico vissuto soggettivamente, laddove questo soggetto appartiene ad un gruppo, e di come le rappresentazioni del suo gruppo interno abbiano rispecchiato o meno le dinamiche presenti nel suo gruppo esterno attuale, il gruppo a cui il soggetto appartiene prima dell’evento, al momento dell’evento e nello sviluppo del processo successivo all’evento.

L’ipotesi sulla quale stiamo tentando di investigare è che un evento traumatico soggettivo irrompe determinando alterazioni sia sul contenitore che sul contenuto o, nel linguaggio della concezione operativa, sia sull’inquadramento che sul processo interno del soggetto e del gruppo di appartenenza e, nello specifico, sul sistema dei vincoli presente in quel determinato gruppo.


LA RICERCA

Per questa ricerca, secondo le ipotesi appena descritte, abbiamo lavorato su un gruppo istituzionale, una équipe di lavoro, all’interno della quale un operatore ha vissuto una esperienza traumatica durante lo svolgimento della propria professione.
Ciò che si voleva verificare è la dimensione e la qualità dei vincoli esterni ed interni sperimentati dai soggetti in quel gruppo e la loro eventuale trasformazione in seguito all’evento traumatico.

Si tratta di un’équipe istituzionale pubblica di un Servizio dell’Italia Centrale che eroga interventi nel campo della Igiene Mentale, multiprofessionale e transdisciplinare, istituita nel 1991.
Nel corso dei decenni, l’organizzazione ha avuto varie rimodulazioni che l’hanno portata a delinearsi secondo la dimensione che mostra al momento dell’indagine: tre infermieri professionali, un’assistente sociale, tre psicologi, di cui uno a contratto, quattro medici, di cui tre sono psichiatri. Una particolarità di questa équipe è che è costituita quasi completamente da donne, l’unico professionista di sesso maschile è uno degli infermieri professionali. Peraltro, il Servizio interagisce anche con personale appartenente al Privato Sociale del territorio attivo nel medesimo settore di intervento (Comunità Residenziali), con il quale condivide periodicamente, oltre ai programmi messi in essere per i pazienti, i percorsi formativi congiunti ed i momenti di supervisione, e anche uno di questi operatori esterni di comunità è di sesso maschile

In questo quadro, una delle psichiatre, dopo la stabilizzazione in ruolo, subisce un’aggressione, mentre presta servizio, da parte di una paziente assistita da molto tempo dalla struttura. Durante un colloquio individuale, l’utente, femmina, aggredisce la dottoressa verbalmente e con il lancio di alcuni oggetti che non la colpiscono direttamente, ma le conseguenze di questo evento derivano dai movimenti bruschi fatti per evitare gli oggetti scagliati. Dopo l’evento, la psichiatra sviluppa un problema alla colonna vertebrale e poi una sindrome post- traumatica da stress, per cui resta per circa sei mesi lontana dal servizio, con un certificato di infortunio sul lavoro per i postumi descritti. L’assenza della professionista, per tutto il tempo in cui si svilupperà, non verrà colmata da alcuna sostituzione.
Appare significativo segnalare che questa équipe, fin dal momento della sua fondazione, ha voluto costruire un’ECRO (Schema Concettuale di Riferimento Operativo) condiviso tra i suoi integranti per operare attraverso una effettiva interazione multiprofessionale e transdisciplinare. A questo scopo, tutti gli operatori di qualsiasi qualifica che si sono avvicendati nel corso degli anni, hanno frequentato la Scuola “José Bleger” per l’apprendimento della Concezione e della Tecnica Operativa di Gruppo. Sempre con la medesima finalità, l’équipe è stata fin dall’inizio costantemente supervisionata, attraverso incontri cadenzati, grazie all’intervento di un supervisore esterno esperto in COG.
Una volta rientrata in servizio la psichiatra, sono stati attivati, per decisione condivisa nell’équipe, cinque incontri di supervisione a cadenza quindicinale espressamente dedicati alla elaborazione di questa esperienza traumatica.

Metodologia

In questo campo apparivano rappresentate le istanze dei fatti sorprendenti che avevamo enucleato in premessa. Si è pensato quindi di ricercare proprio al suo interno, e di applicare i metodi che si riferiscono al paradigma della Investigazione Qualitativa, secondo il dispositivo della Osservazione Partecipante. Abbiamo deciso cioè di partecipare in qualità di osservatrici partecipanti alle sedute di supervisione che l’équipe aveva programmato per l’elaborazione dell’evento, di predisporre una rotazione delle osservatrici in modo che il processo potesse essere partecipato da più di un soggetto del gruppo di ricerca, e di enucleare gli emergenti di questo processo per analizzarli, in seguito, all’interno dell’intero gruppo di ricerca riunito, nel tentativo di addivenire collettivamente ad una ricostruzione delle risultanze investigative.

Prima di descrivere come si è svolto il lavoro sull’osservazione del gruppo degli operatori, crediamo sia necessario descrivere anche come ha operato al suo interno il nostro gruppo per tale lavoro di ricerca.
Innanzitutto le date per i nostri incontri erano stabilite di volta in volta, gli incontri sono stati numerosi, a volte con lunghe pause, ma il nostro gruppo ha tenuto, i vincoli si sono formati e non c’è mai stata la volontà di abbandonare malgrado la difficoltà nell’incontrarsi.
In alcuni momenti difficili in cui il gruppo sembrava sfilacciarsi, e pareva impossibile andare avanti, abbiamo riconosciuto come elemento di coesione l’aver partecipato noi stesse, come integranti, ai gruppi operativi organizzati dalla Scuola Bleger.
Nei nostri incontri abbiamo sempre pensato di non voler stabilire ruoli particolari: lavoriamo in gruppo ma senza avere un coordinatore o un osservatore, ci autogestiamo, non c’è qualcuno che in maniera stabile verbalizza.
Ad ogni incontro si integrano le verbalizzazioni individuali precedenti e su quelle nascono nuovi spunti di riflessioni e lavoro.

Lavorare sul trauma: pensarlo, osservarlo, scriverne, non è un lavoro facile, sempre ritorna il proprio vissuto interno.
Anche nel nostro gruppo viviamo ruoli diversi, così come nell’équipe osservata: siamo psicologhe, medico e psichiatra.
Inoltre, il nostro gruppo di ricerca ha una implicazione forte con l’équipe osservata: una delle nostre colleghe lavora nel Servizio stesso dove si è svolto l’incidente ed ha partecipato come integrante a tutte le sedute di supervisione, altri componenti dell’équipe sono conosciuti da tutte noi, frequentano l’Istituto Bleger e ne hanno condiviso la formazione; questa sottolineatura è importante, ma non impedisce una lettura degli eventi così come da noi impostata.

Veniamo ora alle osservazioni svolte. Gli incontri di supervisione sono stati in totale 5, noi abbiamo deciso di osservare il primo, quello centrale e l’ultimo.
Il Supervisore della équipe era il Dott. Montecchi, sostituito nei due centrali dal Dott.de Berardinis. Noi, come già detto, ci siamo alternate per effettuare la osservazione partecipante attraverso la quale sviluppare la ricerca, per cui le tre sedute di supervisione osservate hanno avuto tre osservatrici diverse.
Ognuna delle tre osservatrici ha poi riportato dentro il gruppo di ricerca ciò che ha annotato durante le supervisioni e si sono individuati gli emergenti.
Abbiamo poi analizzato le osservazioni attraverso i nostri riferimenti teorici, le nostre libere associazioni, il vissuto di gruppo attraversato a sua volta dal trauma. Quel che ci interessava non era tanto l’evento in sé, e attribuire una qualche responsabilità, ma studiare il possibile cambiamento dei vincoli e del gruppo, in questo caso un’équipe, attraversata da un trauma.

Vediamo ora, di seguito, un breve resoconto di ognuno dei tre incontri osservati, e i tre emergenti individuati.
Da notare che le frasi pronunciate dagli integranti dell’équipe sono messe tra virgolette e tra parentesi i ruoli professionali degli operatori; infine chiamiamo X l’operatrice che ha subito l’aggressione


1° Gruppo 23/11/2012

Supervisiona: L. Montecchi
Ricercatrice osservatrice partecipante: Agnese
Integranti: 14
L’operatrice aggredita non c’e all’inizio, arriverà in ritardo.
Presentazione del compito da parte del supervisore.

” L’idea era quella di riflettere su ciò che si è prodotto nell’équipe in seguito all’aggressione degli operatori , se siamo d’accordo”

Silenzio…..

Parla X (operatrice aggredita, che intanto è arrivata) : “Forse ci è stato utile parlare del conflitto esterno ma anche le nostre modalità sono molto violente… Il conflitto è stato al nostro interno…”

In tutta la riunione non si parlerà mai dell’accaduto, il discorso si sposta all’interno dell’équipe, si fa riferimento ad un gruppo di studio precedente: tempo addietro, infatti, nel Servizio si era costituito un gruppo di studio temporaneo composto da alcuni degli operatori, che si era dato come compito la rilettura del testo “Simbiosi ed Ambiguità” di José Bleger.

(Psicologa): ” Il conflitto traumatico è al nostro interno. Nel gruppo di studio sono emerse difficoltà sul mettere insieme professionalità diverse sulla diagnosi, sul suo significato, come si fa, etc.”

Per quasi tutto il tempo domina il tema della diagnosi, con confusione e conflittualità.

(Operatore di comunità): “Senza diagnosi non puoi lavorare… arrivano persone senza diagnosi…”

(Psicologa): “E’ sulla discriminazione, l’esplicitazione di una discriminazione porta ad un conflitto”.

Si fa riferimento qui al fatto che, solo di recente, è stato espressamente chiesto al Servizio, per questioni amministrative, di formulare diagnosi psicopatologiche “ufficialmente” condivise dai sistemi di classificazione ICD 10 o DSM IV, indispensabili per ottenere le ripartizioni della spesa necessaria per l’inserimento in Comunità Residenziale e per avvalorare la prescrizione di farmaci, in particolare antipsicotici atipici.

(Psicologa) : “Queste diagnosi psicopatologiche come avete intenzione di gestirle? La mia diagnosi è una restituzione di una valutazione diagnostica su base relazionale, con codici linguistici diversi dal DSM… c’è un problema di ruoli, il gruppo forse era simbiotico, ora si sta differenziando…”

(Psichiatra): “Lo avete capito perché ho chiesto le diagnosi?”

Solo alla fine della riunione, all’interno di un conteggio statistico sugli utenti, emerge il dato di due utenti che si sono suicidati dopo le dimissioni e di uno deceduto per overdose.

Gli emergenti sono:
1) La persona aggredita arriva in ritardo.
2) “Le epistemologie non convergono, frammentazioni di linguaggi… ognuno parla una lingua propria”
3) “Due suicidi sono un grosso trauma, la famiglia di P. (uno dei ragazzi suicidi) si è comportata in modo molto violento con il Servizio”.


2°Gruppo: 13/12/2012

Supervisiona: M. De Berardinis
Ricercatrice osservatrice partecipante: Elena
Integranti: 10
Inizia la supervisione , manca X, che arriverà in ritardo.
Compito: parlare di quel che è accaduto all’interno del servizio e di tutto ciò che si vuole.

Emerge il fatto dei suicidi, il fatto che la famiglia di uno di questi ragazzi si sia scagliata contro il Servizio e che il parroco, durante la messa di commiato, abbia fatto un’omelia contro la struttura pubblica..

Viene raccontato per la prima volta l’episodio dell’aggressione ma sembra soprattutto perché è cambiato il supervisore, e quindi per renderlo edotto degli accadimenti. Ma poi viene fuori il fatto che 3 anni prima, la stessa paziente ha agito un comportamento simile con un altro psichiatra, maschio, poi trasferitosi (per altri motivi) in un altra Struttura.

C’è tensione tra le diverse figure operative, si parla della Diagnosi Operativa.

Arriva X, insieme ad un’altra operatrice.

Emerge la sensazione di una disgregazione tra i ruoli, gli infermieri lamentano di sentirsi come poliziotti, non si sente il riconoscimento del ruolo.

I pazienti sembra sappiano da chi poter ottenere ciò che vogliono.

Emerge il problema di una non comunicazione tra i diversi settori e ruoli.

C’è rabbia, perché c’è chi viene ascoltato e chi no.

X.: “Fuori di qui ho cercato la risposta”.

Alcune operatrici escono perché hanno un gruppo.

X.: “Il gruppo mi avrebbe frammentato”, “non volevo sentire nessuno” .

“Sapevo che sarebbe andata così, avevo chiesto di vedere insieme a qualcuno questa paziente, ma sono abituata a far da sola senza pensarci. Mi è stato detto che dovevo farlo io, perché ero l’operatore di riferimento. Sono stata paralizzata dalla paura”.

Si discute animatamente sulla definizione del ruolo.

Ci si chiede se lo psichiatra deve dare per scontato che ci siano aggressioni e saper in qualche modo reagire ad esse o se queste aggressioni invece non debbano far parte del mandato.

Le opinioni a tal proposito non sono concordi.

Emerge la domanda se loro, come operatori, si devono occupare di maleducati da rieducare o di pazienti.

Gli emergenti individuati sono:
1) La persona aggredita arriva in significativo ritardo.
2) “Quello che succede in quella casa non si sa, come noi qui”. “Qui per parlare bisogna usare violenza”.
3) “Chi è il nostro alleato: il paziente violento o il collega?”.


3° Gruppo 10/ 5/ 2013

Supervisiona L. Montecchi
Ricercatrice osservatrice partecipante: Arianna
Integranti: 13, 1 assente
Anche a questo incontro l’operatrice aggredita arriva in ritardo.

Il primo intervento è significativo : “C’è l’accorpamento dei Dipartimenti, stiamo anticipando una diaspora…”

Il gruppo si riferisce al fatto che sta per concretizzarsi una riorganizzazione regionale della rete delle strutture sanitarie secondo criteri di Area Vasta, e si teme che il Servizio verrà accorpato insieme ad altri in un unico Dipartimento provinciale.

Questo sarà il motivo di fondo di tutto il gruppo, la sensazione di qualcosa destinato a cambiare per sempre, e l’impossibilità di opporre resistenza.

Arriva X in ritardo, mentre il discorso è: tutto finisce e nessuno ha detto niente, ho un brutto presagio , il peggio deve arrivare.

Le viene detto : “hai tentato una fuga”

L’idea è che per riprendere le forze bisogna andare fuori.

X dice: “devo tornare nella caverna”.

Quindi l’équipe è attraversata da questo continuo pensiero dello stare dentro o fuori, del pubblico e del privato, dell’esterno che arriva come una minaccia a sgretolare tutto.

Nella parte centrale dell’incontro vengono portati per la prima volta dei sogni.

Nel primo, c’è la descrizione dello stesso gruppo d’équipe, in una stanza rivestita di mattoni, con una rete in alto, ad un certo punto una persona, descritta come un’amazzone, sembra un uomo ma è una donna, si alza, corre verso la finestra e si lancia rompendo la rete, chi racconta dice che va a vedere e quella persona è sfracellata.

“Era la persona più pessimista del gruppo!”

Il secondo sogno è stato fatto da un’altra operatrice la stessa notte del primo: “dovevo recuperare la mia macchina con gli alberi che si sfracellavano ed era pericoloso.”

Terzo sogno, raccontato da una ulteriore operatrice: “torno a casa e la trovo piena d’acqua, era il mare, mi mettevo su una zattera di rete ma cado, non so nuotare e dico: è il momento di morire. Trovo un ragazzo che mi dice: ti aiuto!. Quando esco c’è un uomo elegante vestito di blu che mi dice di stare tranquilla, ma in realtà non fa niente, poi vedo due colleghe che mi aiutano e mi aspettano con gli asciugamani…”.

Tutti i tre sogni fanno pensare al gruppo che c’è una parte, il femminile, che protegge, come una madre, e c’è una parte negativa, maschile, che va eliminata, ammazzata, o sfracellata, ci sono il maschile e il femminile che si mischiano ma allo stesso tempo confondono, la persona del primo sogno che si sfracella è un’amazzone, con gli stivali, con la coda di cavallo, una donna che fa l’uomo.

Il gruppo lavora su questi temi: dentro/fuori, precari/stabili, il ruolo che si gioca, con tutte le diverse professioni, ma anche con il maschile o femminile: madre che deve solo nutrire o femmina che si può divertire, c’é il cambiamento che porta alla disgregazione, i vincoli e le relazioni che se mutano, finiscono:

“Sono stufa di nutrire, il compito femminile non può essere solo questo”

“Indurre dipendenza è un modo per non vedere la propria”

“Un conto è la vacanza, un conto la foto delle vacanze!”

“Se veniamo accorpati perdiamo questo modo di lavorare”

Nell’ultima parte si lavora su come ci si aspetta che avvenga il cambiamento, è la violenza che irrompe, rappresentata proprio da un uomo (il nuovo direttore che arriva dal potere centrale e che si teme sarà incaricato di dirigere l’unica struttura dipartimentale che verrà configurata in seguito all’accorpamento degli attuali servizi) che usa la violenza e la sua forza sulle Strutture gestite da donne.

Nella conclusione ci si sforza di essere propositivi, viene detto che i modelli che funzionano sono così come questo, a rete, e la rete consiste in una forma articolata, non come un modello dove c’è un sole centrale che nasconde ed ha la supremazia su tutto il resto.

Gli emergenti sono:
1) la persona aggredita arriva in ritardo: “stiamo anticipando una diaspora.”
2) Chi esce si sfracella o annaspa.
3) L’uomo che viene da fuori violenta.


CONSIDERAZIONI

In questo lavoro ci colpiscono immediatamente 3 elementi.
In prima istanza, rileviamo l’effettività del fatto sorprendente dal quale siamo partite: un trauma “apparentemente” lieve può provocare un’onda traumatica con una significatività importante.
L’utente si è scagliata infatti contro l’operatrice con forte aggressività, ma non c’è stato un esito immediato particolarmente grave.
Per la particolare competenza clinica del Servizio, si può rilevare che rabbia ed aggressività siano comportamenti che si possono attendere da utenti così problematici, ma l’effetto dell’attacco è dirompente: sia sull’individuo, portando l’operatrice a rimanere assente dal lavoro per diversi mesi, sia sul gruppo, innescando un processo che è stato l’oggetto delle nostre osservazioni. Quindi: piccolo trauma – grande effetto.

In secondo luogo, l’apparente scarso interesse ad affrontare il caso in sé.
Non si parla mai, o quasi, del fatto accaduto; solo nel secondo incontro, in maniera approssimativa e principalmente per via del cambio del supervisore. In pratica, è assente una cronaca dell’evento, una narrazione che possa condurre il gruppo a rivedere ciò che è successo e cercare di comprendere cause ed effetti.

Il terzo elemento è il ritardo dell’aggredita, che si ripeterà sempre.

Il conflitto e le ansie del gruppo si coagulano intorno a due temi principali che useremo come analizzatori: il potere e le differenze (di ruolo, sessuali, di linguaggi).


IL POTERE

Sin dalla prima riunione è evidente un conflitto di ruoli tra le professioni incentrato sul problema della diagnosi: chi deve o vuole o può fare diagnosi, come la si fa, a cosa serve.
Dall’osservazione emerge che vi è stata la richiesta istituzionale, esterna al servizio, di redigere diagnosi specifiche per i pazienti, questo conduce a discutere su chi ufficialmente può o deve fare la diagnosi, quindi su chi ha maggiori responsabilità ma anche potere.

Questa evidenza porta ad un altro analizzatore. La necessità della diagnosi espressa secondo criteri nosografici descrittivi e la conseguente differenziazione dei ruoli probabilmente mobilita delle ansie latenti, ci si riferisce al fatto che ci fosse un tempo in cui il linguaggio era comune (il tempo della “diagnosi operativa” costruita con l’apporto valutativo di tutte le figure professionali), condiviso, un “ bel tempo perduto”, linguaggio che ora appare frammentato, non più familiare e scontato.
La richiesta esterna della diagnosi fa uscire dall’idea, un po’ utopica, che gli operatori sono tutti uguali, dall’idea di una comunicazione condivisa, che poi si è incrinata e comunque non è più quella di prima.
Gli integranti dell’équipe, che non pensavano alle differenze come origine di conflitto e per i quali la diagnosi era il risultato di un lavoro collettivo, sono costretti ad assumere la differenza e l’obbligo di una diagnosi specifica secondo canoni esterni.
Si distingue tra chi ha più o meno potere, o ruoli diversi: lo psichiatra che è diverso dallo psicologo, chi è assunto a tempo indeterminato e chi no, chi è un tirocinante o un volontario, chi fa il padre o la madre, chi è accogliente e chi è autoritario. E la declinazione di queste distinzioni è caricata di una forte tonalità aggressiva.


LE DIFFERENZE

Sembra emergere la differenza tra ruolo materno e paterno che si inserisce su quello professionale. Ricordiamo che l’équipe è costituita quasi tutta da donne ad eccezione di un infermiere.
Il ruolo dello psicologo sembrerebbe quello più accogliente e tollerante, quindi simile al ruolo materno, il ruolo dello psichiatra, diversamente, sembra essere (o meglio, questo sembra il deposito del gruppo di operatori nei suoi confronti) quello di chi dà le regole, più autoritario. Proprio per questo esercizio d’autorità è il ruolo professionale verso cui, secondo questo gruppo, anche se non esplicitamente, sembra più naturale sia rivolta l’aggressività di coloro che le regole le devono subire.
Il gruppo è calibrato su un’identificazione collettiva con il “femminile”, mentre il ruolo dello psichiatra è vissuto come rappresentante della mascolinità ed è questo che viene esposto, per mandato conferito dal gruppo medesimo, all’aggressione esterna. Quindi, sembra di poter dire che questo stesso ruolo è oggetto di una forte aggressione implicita anche all’interno del gruppo delle operatrici.
I conflitti professionali sembrano, allora, confondersi con i conflitti di genere.

Quel che è accaduto può quindi essere l’agito di una aggressività non riconosciuta interna al gruppo, ma elementi aggressivi e violenti erano provenuti già da prima dall’esterno: il Servizio aveva in effetti subìto delle aggressioni importanti:

  1. una in seguito ai suicidi di due giovani pazienti (dei quali uno dimesso da poco da un programma residenziale). La famiglia di uno dei ragazzi aveva organizzato insieme alla parrocchia un’assemblea pubblica alla quale il Servizio non era stato invitato, e pare che il parroco avesse fatto un’omelia criticando pesantemente l’operato del Servizio medesimo, nonostante la Struttura si fosse in realtà molto prodigata nel tempo, operativamente e finanziariamente, per rispondere ai bisogni di questo assistito;
  2. la seconda è la notizia dell’imminente accorpamento di più Servizi e della imposizione del cambio dei direttori, stabilito unilateralmente dai livelli decisionali apicali, con una paventata probabile soppressione dell’autonomia gestionale ed organizzativa sperimentata finora;
  3. infine, la richiesta di redigere diagnosi nosografiche standardizzate al posto delle diagnosi operative che il Servizio era invece formato a produrre collettivamente, per la somministrazione di farmaci e la razionalizzazione dei costi.

Sembra, allora, che il trauma abbia messo in luce alcune fragilità nei vincoli, non evidenti finora sul piano manifesto, e procurate o esacerbate, presumibilmente, da queste azioni, ed esperienze politraumatizzanti precedenti: l’aggressività latente legata al conflitto professionale e di genere, la rabbia non esplicitata legata a questo conflitto latente e quella legata alle altre aggressioni subite dall’esterno, il dissenso non detto o non ascoltato che si sono insinuati tra le crepe ed il gruppo all’improvviso si è dovuto rimettere in gioco.
Il trauma può fungere in un gruppo come collante ma anche come elemento disgregativo: a noi sembra che, in questa osservazione, sia andato un po’ più in questa seconda direzione.
Si è inserito come un cuneo nella quotidianità e ha rotto il linguaggio familiare: prima erano apparentemente tutti uguali, una sorta di condivisione matriarcale dei poteri, adesso no, irrompe ed emerge il conflitto, determinato dalla percezione evidente delle differenze, che sono differenze di ruoli e di genere, e la differenza di genere richiama e sembra sovrapporsi alla differenza dei ruoli e innesca dinamiche competitive. La compattezza del gruppo è destabilizzata, la gestione della paziente non avviene secondo percorsi autenticamente condivisi, si apre il varco alla possibilità dell’aggressione, si genera il trauma: anche la risposta ad esso non è aggregata e condivisa, ma mostra modelli di risposta e di elaborazione frammentati. Il soggetto, vittima dell’evento aggressivo, cerca risposte secondo un paradigma individualistico.

Ci chiediamo: la posizione del gruppo di professionisti è dipesa anche da come si è posta l’operatrice aggredita? E lei avrebbe potuto sottrarsi al mandato conferitole da esso? Diceva infatti di sé, durante una delle supervisioni osservate: “Sapevo che sarebbe andata così, avevo chiesto di vedere insieme a qualcuno questa paziente, ma sono abituata a far da sola senza pensarci. Mi è stato detto che dovevo farlo io, perché ero l’operatore di riferimento.”
Apparentemente lei ha poi avuto, in seguito all’accadimento traumatico, un atteggiamento di rottura col gruppo: non ha chiesto aiuto, si è assentata per un lungo periodo, alle supervisioni da noi osservate è arrivata sempre in ritardo, “anticipando la diaspora” con un messaggio aggressivo che si riflette nelle dinamiche gruppali.

Tutto quel che abbiamo osservato e poi riportato al nostro gruppo di ricercatrici riverbera su di noi in modo differente, dati i nostri ruoli e i nostri gruppi interni: intorno a questo dibattiamo e cerchiamo di analizzare i contenuti che emergono. E’ come essere una squadra, un’osservatrice si avvicina di più ad un’ipotesi o all’altra.
Ma ci sembra di poter condividere unitariamente che la ricerca abbia evidenziato alcune risultanze, che vorremmo lasciare però sotto forma di domande aperte, per suscitare ed identificare pensieri e canali ulteriori di ricerca . Infatti, secondo alcuni autori della Rivista “Psicologia Social” di Bahia Bianca (Bernardo Jiménez Dominguez ) i ricercatori psicosociali dovrebbero considerarsi “costruttori di opere effimere” , quindi la ricerca dovrebbe servire, una volta ultimata, a produrre pensieri generativi e desideri di aprire ulteriori canali di investigazione.

Le risultanze sono:
1) un gruppo curante omogeneo per genere ascrive al suo proprio genere la specificità dell’esercizio della cura? Un gruppo di maschi, cioè, pensa che la cura debba seguire criteri “maschili” e un gruppo di donne pensa che  la cura sia legittima solo secondo criteri “femminili”? Il curare è maschile e la cura è femminile?

2) I conflitti fra categorie professionali sono conflitti di genere?

3) Come gioca la specificità di genere nel determinare difficoltà a rifiutare il deposito dei mandati? Per le donne è forse più difficile rifiutare il deposito di un mandato?

4) La prevalente omogeneità di genere, in un gruppo, rende i processi di differenziazione più difficili? Li rende carichi di un’aggressività reciproca importante tra i membri? Fa emergere dinamiche espulsive rispetto a chi si differenzia?

5) I politraumi precedenti e ripetuti espongono a successive, più dirompenti, esperienze traumatiche?

 

 

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