Il gruppo multi-familiare e il diritto alla cittadinanza. La partecipazione nella «città visibile» della salute mentale

PRESENTAZIONE: Nel mio lavoro di psichiatra, alle dipendenze del Servizio sanitario pubblico nella Regione Marche, in una attività territoriale prima (nella ZT 10 di Camerino – MC) e ospedaliera poi (nella ZT 5 Jesi – AN) ho avuto l’onore e la fortuna di incontrare nel mio cammino professionale, sotto la loro attività di supervisione e per oltre dieci anni, il prof. Armando Bauleo e il prof. Alfredo Canevaro; all’interno di percorsi formativi e di miglioramento della qualità. Ho così avuto modo di apprendere e sperimentare tecniche terapeutiche diverse, tra cui il coordinamento dei Gruppi Multi familiari (GMF); come aspirante terapeuta prima – quando mi limitavo ad osservare e qualche volta intervenire – e poi, via via, debuttante, principiante, artista in erba..

La vecchia collaborazione con Massimo Mari, gli insegnamenti della scuola Bléger di Rimini diretta da Leonardo Montecchi, le supervisioni dei prof. Bauleo e Canevaro, hanno migliorato la mia esperienza nelle attività di gruppo. In relazione a questo, con riferimento particolare ai GMF, nascono alcune considerazioni che vengono proposte in una prospettiva sociologica e forse filosofica; questo non per retorica, ma solo per tributo al filosofo Prof. Pietro Maria Toesca la cui lettura mi ha suggerito alcune riflessioni ricombinate in una prospettiva diversa.

PAROLE CHIAVE (Key Word): Cittadinanza, civitas, democrazia, emarginazione, disagio, libertà, ordinamento sociale, partecipazione, politica, prevenzione, sviluppo della persona umana, stigma, urbs.

RIFERIMENTI LEGISLATIVI

Costituzione italiana; Art. 3: Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di condizioni personali e sociali.

E’ compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.

Art. 38: Ogni cittadino inabile al lavoro e sprovvisto dei mezzi necessari per vivere ha diritto al mantenimento e all’assistenza sociale.

I lavoratori hanno diritto che siano preveduti ed assicurati mezzi adeguati alle loro esigenze di vita in caso di infortunio, malattia, invalidità e vecchiaia, disoccupazione involontaria.

Gli inabili e i minorati hanno diritto all’educazione e all’avviamento professionale. Ai compiti previsti in questo articolo provvedono organi ed istituti preposti o integrati dallo Stato.

L’assistenza privata è libera.

Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo; Art. 22: Ogni individuo, in quanto membro della società, ha diritto alla sicurezza sociale, nonché alla realizzazione, attraverso lo sforzo nazionale e la cooperazione internazionale e in rapporto con l’ organizzazione e le risorse di ogni Stato, dei diritti economici sociali e culturali indispensabili alla sua dignità e al libero sviluppo della sua personalità.

Legge n. 419/1998; Art. 2 (comma1)

Legge n. 328/2000; Art. 1, 3,6

 

Per far comprendere l’idea che si vuole sviluppare e che fa riferimento alla partecipazione sociale come principale elemento di libertà, autonomia politica e tutela di se stessi nella vita democratica, si propongono due concetti antichi di almeno venti secoli: l’ urbs e la civitas.

“Urbs” è la città nel senso materiale del termine, quella formata dall’ insieme degli elementi comuni o caratteristici costitutivi della morfologia e dell’ arredo; è tutto quello che nel suo insieme può corrispondere oggi, simbolicamente, a un complesso hardware.

“Civitas” è invece la cittadinanza abitante con le sue norme civiche e giuridiche, il patrimonio di principi, con gli usi, i costumi, le relazioni e i parametri culturali di riferimento: l’equivalente di un software (Degli Espinosa, 2001). Entrambe hanno subito profonde modificazioni dopo la chiusura con la legge 180 del 1978 delle “invisibili città dei folli”, luoghi di segregazione in cui i temibili alienati erano ridotti a pura fisicità senza storia, custoditi perché non fossero di pubblico scandalo, né pericolosi per sé o per altri; pericolosità spesso solo presunta (Comitato della Rete, 1991). La riforma Basagliana, che tra luci e ombre si è dimostrata un reale progetto politico, ha cambiato totalmente gli scenari della vita quotidiana e della cura; ha restituito ai malati la visibilità, la dignità, il rispetto della persona e il riconoscimento di una propria “soggettività”, talvolta originale, spesso singolare, da comprendere per recuperare pienamente. Le trasformazioni nella psichiatria hanno così fatto della “relazione” e della “comunicazione” le strategie centrali dell’agire terapeutico (Scala A., 1998) che vede oggi nel “territorio” il luogo centrale dell’intervento e nella “rete integrata” dei servizi, il moderno paradigma teorico-operativo che si articola sulla “presa in carico” del paziente per garantirgli continuità assistenziale, lungo “percorsi terapeutici” di ricostruzione individuale e familiare, in una integrazione “pluri-disciplinare” degli interventi, con particolare attenzione anche alla “qualità” e alla “formazione permanente” del personale impiegato nelle “relazioni di aiuto”, perché più esposto al “burn-out”.

Si è così modificato radicalmente l’assetto delle “dimore dei mentali”, un tema su cui esiste ancora un accesso e conflittuale dibattito, con una ricca produzione di termini, modelli, parole, in un gioco di rimandi di competenze estenuante (economiche soprattutto).

I trattamenti terapeutici e i percorsi riabilitativi nella psicosi hanno oggi come mito principale l’inserimento lavorativo che, quando possibile, resta di fatto un obiettivo privilegiato, riservato ai fortunati con maggiori risorse, non necessariamente individuali, che rappresentano soltanto una parte della popolazione trattata.

In questa nuova realtà molti pazienti restano però dimenticati tra le “follie delle città” (Scotti F., 1998) dove, nella vita quotidiana, la loro presenza è ridotta a formale apparenza; un repertorio di abilità comportamentali – indicato come parametro di valutazione dal DSM (Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders) nella scala del funzionamento globale (VGF) – abilità che vanno bene nella prospettiva psichiatria ufficiale come semplice fatto descrittivo, indipendentemente dalla percezione soggettiva e con poco interesse alla misura qualitativa dell’esistenza intesa come presenza dinamica nel mondo (curiosità culturale, coesione sociale, capacità espressive e artistiche, sentimento del vivere, fiducia nel futuro) non solo adeguamento conforme a schemi comuni nei quali identificarsi.

Pazienti liberi di frequentare tanti spazi che si sono loro aperti ma a cui non appartengono veramente perché, in una prospettiva riferita al diritto alla cittadinanza e alla libertà come partecipazione, restano per molte ragioni emarginati anche nelle condizioni di raggiunto benessere e stabilità, e nei quali non sono sempre ascoltati; fatte salve le iniziative di solidarietà riferibili a una sensibilità talvolta ideologizzata o ispirata all’etica della carità e del dono. Esclusi “comprensibilmente” anche dagli ambienti riservati o elitari, in cui si possono esercitare pressioni sociali, culturali, politiche, economiche o quant’altro.

In questa nuova realtà i Gruppi Multi Famigliari (da ora GMF), se coordinati con progettualità e integrati dai Dipartimenti di salute mentale nel loro dispositivo di rete (Mari M. 1998), uniti con programmi alle associazioni di volontariato od organizzati anche con lo scopo di formare gruppi di auto-aiuto (istituzioni autonome che hanno bisogno di sostegno perché non possiedono sempre energie proprie sufficienti e durature) possono costituire, oltre che uno strumento terapeutico, un luogo complementare di ordinamento della vita civica e quindi anche di prevenzione, “adattabile” alle situazioni e centrato su bisogni specifici, contestuali o emergenti. Possono rappresentare come “una piazza virtuale ma vivibile” nella geografia umana della salute mentale (l’agora della civitas).

Una piazza dove poter confidare un bisogno a chi condivide lo stesso problema, o esprimere una richiesta di aiuto che possa essere veramente compresa da chi ascolta, perché già vissuta sulla propria persona. Uno “spazio visibile” dove incontrarsi per conoscersi e per offrire, in un interscambio libero, personali competenze nella cura, nel sollievo, nella ricerca di lavoro e opportunità; dove dare consigli, oppure cercare sostegno e guida per la realizzazione di un progetto personale, magari vissuto come rielaborazione critica di una esperienza o, anche, per una creazione culturale o espressiva nella propria esistenza.

Una volta superate le crisi, tenute sotto controllo le maggiori difficoltà psicopatologiche, stabilizzati i quadri clinici con i trattamenti terapeutici e riabilitativi (evitando che gli episodi psicotici vengano considerati nelle fasi di remissione semplici crisi passeggere) gli utenti, i familiari e gli operatori dei servizi, hanno la possibilità di riunirsi e organizzarsi in gruppi per sostenere progetti o sviluppare, come gemmazione spontanea, delle associazioni con compiti di sostegno o di promozione del benessere, con la ricerca di opportunità utili nel lavoro o nelle attività del tempo libero. Oppure svolgere funzioni di raccordo tra le risorse presenti e costituire un “meccanismo istituente” di verifica e riferimento tra i servizi e le istituzioni (pubbliche o private) i cui referenti possono essere invitati a partecipare ai dibattiti per contribuire alle attività di programmazione e progettazione, in relazione ai temi da trattare nei vari incontri, secondo la cadenza dei programmi e dei progetti in essere. Come una “agenzia per la promozione della salute mentale” non istituzionalizzata egemonicamente nei DSM (che fanno riferimento al mandato delle Regioni), ma liberamente istituente e continuamente istituibile; comunque da sostenere nella sua debole volontà e nella sua grandissima fragilità.

Questo quando i GMF vengono associati strategicamente al governo delle aree a più alta integrazione socio-sanitaria dei Dipartimenti di Salute mentale DSM (nel paradigma della rete integrata dei servizi) e alle contestuali politiche di promozione della salute nell’ambito comunitario dei diversi territori comunali; nel mantenimento delle identità nella loro autonomia propositiva. In relazione a questo è necessario segnalare alcuni aspetti.

a) Nelle attività di supervisione, utilizzate per il miglioramento della qualità nel lavoro terapeutico e nella formazione professionale, il lavoro comprende anche l’analisi delle dinamiche relazionali e dei possibili “conflitti” o “resistenze latenti” negli ambiti: personali, familiari, istituzionali, comunitari e socio-culturali. In questi contesti le interpretazioni, o qualsiasi altra inferenza sulle eventuali disfunzioni osservate, non possono essere sempre riferite a meccanismi inconsci di conflittualità tra ambiti o tra modelli culturali di riferimento, a mandati sociali o a meccanismi inconsci di costruzioni del capro espiatorio, senza tener conto dell’esistenza di strumenti che – come “un dispositivo istituente” – rendono possibile la progettazione e la realizzazione di mezzi con cui sostenere nell’ordinamento civile e nella operatività quotidiana le legittime aspirazioni di espressione, integrazione, realizzazione e di reinserimento della popolazione osservata: una serra, un centro sociale, un atelier artistico o espressivo, una cooperativa, del turismo sociale… Aspirazioni spesso vanificate dalla mancanza di una “cultura operativa”, cioè di una conoscenza che permetta di “comprendere e saper fare” tra bisogni concreti e nella realtà quotidiana, perché hanno senso solo se compresenti (Toesca P., 1991).

Si insegna a non fabbricare capri espiatori e non si insegna a fabbricare laboratori, officine protette, cooperative sociali, mentre l’inserimento lavorativo è l’obiettivo centrale del nuovo agire psichiatrico.

b) Lo stesso principio vale anche per il lavoro nella riabilitazione psichiatrica che si sviluppa intorno al concetto di “empowerment”. Un fenomeno processuale che ha il suo focus sull’aumento delle capacità contrattuali, dell’efficacia e del valore individuale nel senso generale di un miglioramento del funzionamento personale. In questa prospettiva l’attività sul singolo, se non viene sostenuta anche da un lavoro di preparazione sul contesto sociale circostante, nel modello della “chiave e serratura” (Key and lock – William A.A. e Liberman R.P.,1997), finisce per risultare oggettivamente insufficiente sul piano degli obiettivi concreti come l’inserimento al lavoro. Nell’ambito lavorativo infatti vale il criterio di libera concorrenza nei rapporti interumani, competitività che rende i pazienti vulnerabili e impreparati. L’assenza di reciprocità e solidarietà in un mercato dominato da interessi economici e in una realtà in cui prevale la realizzazione di oggetti e di profitto, rispetto alla costruzione di soggetti e soggettività, crea una finta libertà di cui troppi sono vittime (Toesca P., 2007).

c) Le barriere per i mentali non sono fisiche, come per i disabili, ma sociali e relazionali. Per questo i criteri ispirativi e organizzativi di un GMF sono nettamente preferibili al rigido dispositivo assembleare classico dei tanti “tavoli per la salute mentale” dove i familiari, in rappresentanza dei congiunti malati troppo spesso assenti, sanno sempre già tutto quello di cui hanno bisogno e per questo si sostituiscono a loro costantemente (anche nelle fasi di remissione dei loro disturbi) in un atteggiamento che mantiene attivamente le stesse posizioni. Le figure istituzionali sono poco attente all’ assenza dei diretti interessati (sensibili invece alla loro presenza), assenza che sembra rendere più agevole e fattivo il lavoro dell’assemblea, svolta spesso come un atto dovuto, puramente formale; tutto, in questo modo, nel mantenimento dello stigma sociale e delle segregazioni familiari.

d) In una assemblea non è opportuno fare degli interventi terapautici come le interpretazioni perché, fuori dal setting, sarebbero delle aggressioni; in un GMF, organizzato con compiti di progettazione nelle aree ad alta integrazione socio-sanitaria, vale lo stesso principio ma sono comunque proponibili, perché coerenti e pertinenti allo spirito terapeutico e della riabilitazione: le conferme, le segnalazioni, le convalidazioni. In contesti adatti anche il chiarimento e il confronto. Ne conseguono, col meccanismo standard dell’assemblea, dei cicli disfunzionali auto-rigeneranti che mantengono attivi i meccanismi di auto-censura dei pazienti, di segregazione intra-familiare e di stigma esterno o sociale. Cicli che nei GMF sono radicalmente modificati perché non esiste scissione tra comunicazione e comportamento, tra la capacità e modalità di parlare e quella di ascoltare; scissione che trasforma pericolosamente le sedi di progettazione e verifica, quando privati dei diretti interessati, in luoghi pericolosi di estraniazione anche affannosa.

e) La presenza di più di una generazione, due o anche tre, permette il recupero della “verticalità” nella comunicazione, conoscenza che facilita la comprensione dei miti familiari e di quelli dell’immaginario comune della follia nella cultura storica dell’ambito comunitario di riferimento. Immaginario che condizione sensibilmente i processi di crescita e di sviluppo della salute mentale.

f) Nei GMF è frequentissimo osservare dinamiche, resistenze, coazioni a ripetere, devianze comunicative, ridondanze che – con modalità più o meno esplicite, talvolta addirittura palesi e concitate – tendono a “pervertire il compito” trasformando i gruppi terapeutici in comitati di pressione ideologica o promozione politica. Quasi costantemente tali dinamiche (che per la loro entità e frequenza dovrebbero far riflettere) sono automaticamente etichettate come attacchi al setting da parte del “sabotatore”, l’antileader di ogni gruppo. La presenza di un dispositivo gruppale con capacità “istituente” verso problematiche sociali e necessità contingenti, dovrebbe tutelare e rendere più agevole il lavoro terapeutico con una migliore lettura/interpretazione delle dinamiche osservate e la possibilità di rimandare alle sedi opportune l’analisi delle domande a cui la tecnica terapeutica non può dare risposta. In questa prospettiva va ricordato che “l’interpretazione” (nei modelli dinamici) è l’atto ultimo di un processo che nasce dall’informazione e che passa per la conferma, l’eventuale consiglio (non del terapeuta), la chiarificazione, il confronto; solo alla fine si propone una ipotesi interpretativa. In ragione di queste modalità di conoscenza la definizione dello “sfondo” e la chiarezza del “contesto”, rispetto al quale vengono confrontati e dibattuti gli argomenti, nella pertinenza del compito, sembra una garanzia necessaria per evitare i malintesi.

g) Le istituzioni sono state utilizzate sia come “fine” che come “mezzo”, come luoghi della “carriera” di paziente e come strumenti della sua liberazione; in un contesto in cui le istanze, giuridiche, organizzative, abitative, sociali e altro, restano ancora provvisorie e definite solo parzialmente. Ne consegue che “lo spazio non logico della psicosi” – che per sua natura già appartiene alla marginalità, alla extraterritorialità – rimane indefinito, difficilmente analizzabile per comprenderne il rapporto con la patologia e la patogenesi (Bauleo A. 1994). Non si vuole in questa sede affrontare un tema tanto complesso come quello dei luoghi della follia o dello “spazio terapeutico” (familiare, territoriale, gruppale, interiore, esteriore, reale, speculare, immaginario…) né i concetti ad essi correlabili (setting, holding, contenitore, traslazione, transazione, incastro, geografia, esperienza, contenitore-contenuto…) solo ribadire, alla luce di questa complessità e del suo rapporto con la difficile costruzione degli “spazi interni” (già molto confusi nella psicosi), quanto sia necessaria una distinzione semplice, chiara ed esplicita, tra il campo psichico interno di un GMF (con i suoi “tecnici”: psichiatra, psicologo, educatore, infermiere..) e quello esterno dei bisogni quotidiani (con i suoi “operatori”: ass. sociale, familiari, volontariato, politici..). In un rapporto distinto tra ruoli interni ed esterni al GMF, tra i compiti terapeutici e quelli di sostegno sociale; rapporto che deve restare dinamicamente complementare e costruttivo, ma distinto.

L’integrazione dei GMF nei DSM può costituire quindi un dispositivo adattabile per svolgere (oltre all’azione terapeutica che non si vuole dimenticare, ma che necessita di criteri e setting diversi di applicazione) una funzione di libero ordinamento civile, con potenzialità istituenti e di importante sostegno umano. Funzione questa ultima resa indispensabile nelle grandi città dalla frammentazione della vita sociale, perché si lavora in un posto, si dorme in un altro, si mangia, si studia e ci si diverte in un altro ancora. Nei quartieri periferici la situazione è spesso disastrosa, senza centro e nessun rapporto con il centro vero della città, né con la campagna. Quartieri anonimi attraversati continuamente, senza alcuna ricaduta locale, dal flusso e riflusso dei pendolari e dei non residenti; periferie in cui prevalgono solo i bisogni elementari di sopravvivenza, in cui i centri sono mille e nessuno, ogni vicinanza è casuale e generica. In queste situazioni la vita di “vecchio quartiere” o di “villaggio umano” – con le loro antiche capacità di mediazione, di integrazione sociale, linguistica e soprattutto di reciprocità umana – sono inesistenti (Toesca P. 1999).

E’ principalmente in queste realtà, dalla socialità umana frammentata e dispersa, che si può comprendere l’utilità integrativa del collegamento a rete dei servizi, delle istituzioni e delle associazioni che possono trovare – come un faro per i naviganti – il luogo virtuale, lo strumento reale, lo spazio critico e dinamico per l’incontro, l’analisi, il dialogo, la progettazione e il reciproco aiuto. Si pensi soprattutto a coloro che hanno già difficoltà a integrare i piani del loro mondo interno e alle famiglie che la malattia mentale ha portato a ripiegarsi, chiudendosi in se stesse in un processo di estraniazione progressiva e di auto-censura; processo favorito dal contesto ambientale, anziché contrastato. Uno modello che vede nel GMF uno strumento adattabile a ogni realtà e alle varie esigenze, necessario in una prospettiva che si potrebbe dire “politica”, se il termine non fosse sospetto, anche per incidere sulla condizione di debolezza contrattuale che ha fatto sì che la psichiatria sia stata sempre la cenerentola e il capro espiatorio delle altre istituzioni socio-sanitarie. Solide abitudini culturali hanno da tempo contrapposto la scuola alla vita lavorativa, il tempo e i luoghi della formazione sono pertanto diversi da quelli dell’operatività, anche se qualche ritocco è stato fatto ultimamente nella sanità con l’educazione continua alla medicina (ECM).

Il risultato di questa scissione – in cui la formazione è già penalizzata all’origine dalla divisione tra aree che vengono trattate come diverse (psichiatria, psicologia, neurologia, sociologia, filosofia, ecc.) – è che per lavorare concretamente e costruire qualcosa, bisogna dialogare nelle lobby della sanità, in campo politico o nel mondo del lavoro, andando indifesi e talvolta impreparati verso gli interlocutori con pochi strumenti, né proposte certe e concrete, ma presentandosi sempre “come agnelli tra i lupi” o postulanti di una “questua infinita”. Ne consegue una capacità contrattuale molto bassa in tutta l’area della salute mentale, da cui deriva una allocazione di risorse verso altri campi: l’anziano, il disabile, la maternità, l’infanzia, l’arredo urbano, il verde pubblico, lo sport, l’arte, la cultura, ecc…

E’ purtroppo in questa situazione che si sviluppa “la politica della salute mentale”, l’ arte partecipativa di prendersi cura della città, la capacità di rispondere ai bisogni ed integrare la molteplicità. Politica che nasce dalla valorizzazione della socialità e dalla convergenza di tre elementi basilari: l’ ambiente reale e umano, lo stile e la qualità di vita, il lavoro e le pari opportunità. Una situazione eternamente critica per la psichiatria in cui sono state prodotte tante astratte “interpretazioni” o sterili “ipotesi esplicative”, come risposta a problemi reali vecchi e penosi, con il risultato finale di legittimare solo eterogenei autori, nella celebrazione delle loro scuole di pensiero come irrinunciabili, quanto spesso conflittuali, istituzioni di riferimento; tanto auto-referenziali ed ego-centrate da apparire, appunto, come delle entità astratte.

E’ pertanto auspicabile ripartire dalla dimensione individuale del paziente, dal soggetto e non dalla sua patologia, promuovere sperimentazioni a sostegno della qualità delle relazioni e delle possibilità creative ed espressive, non solo dai corsi di formazione per il personale. Tutto questo per favorire una maturazione della coscienza, una promozione guidata e sostenuta della partecipazione, perché i malati possano abitare come proprietari e non da intrusi, i nuovi spazi vitali e abitativi liberati nelle città dopo la legge 180 e l’istituzione dei DSM. Perché non si sentano più ospiti precari nelle proprie città e, nella vita, eterni viandanti affidati al buon cuore o alla carità di qualcuno. Ricercando infine con una consapevolezza migliore – perché filtrata da una prospettiva gruppale, diversa dall’angusta visione individuale gonfia di dubbi ed incertezze – le modalità per contribuire alla vita comune, con il lavoro quando possibile e le necessarie opportunità di servizio (Toesca P. 1992).

Per questo, in relazione alla capacità politica dell’agire tecnico, nel dovere per ognuno di assumersi le proprie responsabilità, considerata la debolezza contrattuale dell’utenza e la sua bassa integrazione, la scarsa coesione e la difficoltà nell’esprimere una volontà critica oggettiva e consapevole (diversa dalla semplice lagnanza o sterile protesta) si ritiene necessario, da parte delle istituzioni della Salute Mentale, un intervento aperto di guida e promozione per “rendere civile lo sviluppo” della psichiatria nelle sue forme e nei processi. Intervento in diverse realtà da implementare, in molte altre da realizzare, tenendo conto della diversità e complessità delle “culture storiche” nel panorama nazionale italiano: le realtà locali in cui inserire i progetti.

Accompagnando quindi i malati, le famiglie, le figure amministrative e le istituzioni preposte, nel percorso verso la cultura dell’integrazione, della lotta al pregiudizio e alla ricerca di una terza via per il collocamento al lavoro, quella della “compatibilità sostenibile”. Una grande rivoluzione culturale perché i malati, con l’aiuto delle famiglie, si riapproprino del “diritto alla cittadinanza” politicamente perduto o forse mai esistito, e dare “una filosofia nuova alla salute mentale” (Scotti 1993) non un’altra psichiatria, migliore solo perché nuova o diversa. Rivoluzione che non può essere demandata ai soli operatori della sanità, né alle conflittuali scuole di psichiatria o psicoterapia, neppure è sufficiente l’egida di personalità illustri, in un contesto generale in cui fanno da sfondo troppe ambiguità, nel campionato nazionale e internazionale delle scuole di specialità e di psicoterapia, con i percorsi agevolati delle carriere accademiche quando l’Universale è orientato dove maggiori sono gli interessi del mercato produttivo (la chimica e la farmaceutica rispetto alla psichiatria) e la Sapienza è più vicina al mercato della produzione-distribuzione che all’Uomo (Toesca 1999). Deve comprendere invece la partecipazione di tutti gli interessati per essere veramente un “processo civile” , rimuovendo tutte le condotte di evitamento e delega collusiva, spesso subdole, perché sostenute da complicità e comportamenti consenzienti; in dinamiche che mantengono le divisioni tra i progetti annunciati, esplicitati, e i comportamenti che li sostengono: tra quello che si dice e quello che si fa per ottenerlo (Toesca 2002).

Il miglioramento delle conoscenze, delle competenze, il perfezionamento delle tecniche psicoterapiche e riabilitative, non sono da sole esaustive del “concetto di Civiltà” e le “carte dei servizi” non possono restare sterile qualità formale per una utenza ridotta all’ascolto o all’attesa, ma devono essere costruite con gli interessati e con le loro famiglie che hanno il diritto/dovere di contribuire, sulla base di una volontà da recuperare, elaborare, discutere e confrontare (la carta di intenti e dei diritti del malato) nei GMF necessariamente costitutivi del dispositivo istituzionale.

La carta non può essere il “menu” dove scegliere cosa gustare tra prodotti che vengono pensati e decisi dall’alto o in altro luogo, ma il risultato invece di una convergenza comunitaria solidale, in cui ognuno produce uno sforzo e lavora per costruire insieme l’utopia che: “un mondo migliore è possibile” (Sereni C. 2006).

Questo anche per il sostegno alle associazioni “no profit” del terzo settore, alla rete dei servizi e alle varie istituzioni che costituiscono, con le famiglie, gli interlocutori migliori per le verifiche perché i più vicini ai bisogni, alle criticità e alle risorse presenti nel territorio. Per questo organizzare nelle realtà locali un dispositivo che, per lavorare, programmare, verificare e comunicare, utilizza come strumento operativo “una rete articolata di gruppi-MF” è un atto dovuto da parte dei DSM, sia per la terapia che per la civiltà.

Una rete vera e viva, fatta di persone, costitutive di una inesauribile “centralità periferica” perché può attribuire una distinta funzione o compito a ogni singolo gruppo (nella distinzione chiara tra terapia e progettazione, tra le competenze dei tecnici e quelle dei singoli per la “costruzione e della propria Città”). Un dispositivo che, rovesciando la prospettiva dei modelli piramidali, può raccogliere e fare tesoro della molteplicità senza impoverirla, senza eliminare le differenze per renderle omogenee a modelli unici o ritenuti superiori che impediscono, con modalità semplificative, autoreferenziali ed ego centrate, la lettura e la costruzione della complessità. Un modello di rete che si configura, inoltre, in relazione all’autonomia criticamente costruttiva dei suoi “nuclei di soggettività periferica” (Montecchi L., 2000) al dinamismo e al coordinamento dei loro rapporti. Anche se è chiaro che non tutti i malati potranno essere sempre attivi contribuenti né amministratori di se stessi, potranno certamente con la presenza dei familiari – che devono sostenere i congiunti, non sostituirsi a loro segregandoli – nei periodi di benessere e sulla base delle risorse residue non sempre trascurabili sostenere e promuovere le scelte sociali e politiche con una partecipazione libera, come quella su cui si basa la comunicazione nella democrazia diretta (Insalaco F., 2007) l’unica che può restituire la loro ideale “agora”, il teatro della vita civica nella cultura classica, oggi il luogo dei luoghi:“la piazza per la città visibile della salute mentale” (Toesca P., 1990).

Un luogo che rappresenta simbolicamente il punto di partenza e di eterno ritorno per il loro difficile cammino verso il diritto alla cittadinanza.

In conclusione si ritiene necessario guidare così la crescita del processo di sviluppo nella salute mentale di cui nessuno conosce oggi il futuro ma che, proprio per questo, non può essere separato dai suoi attori principali che necessitano di aiuto e sostegno in questa direzione: “ le lotte per la difesa della propria dignità psico-fisica, per la riappropriazione delle capacità e delle responsabilità personali, si avvalgono oggi delle scienze psicologiche e psichiatriche più adeguate che agiscono nel profondo e sui comportamenti. Esse rischiano di indurre all’acquiescenza se non coniugano le esigenze dell’io con l’ambiente circostante in una dinamica prospettica di evoluzione sociale” (Tresalti G., 2007).

Il y a donc une autonomie politique: et cette autonomie politique suppose de savoir que les hommes créent leur propres institutions. Cela exige que l’on essaye de poser ces institutions en connaissance de cause, dans la lucidité, après délibérations collectives. C’est ce que j’appelle l’autonomie collective, qui a comme pendant absolument inéliminable l’autonomie individuelle.

Une société autonome ne peut être formée que par des individus autonomes. Et des individus autonomes ne peuvent exister que dans une société autonome.

Je peux dire que je suis libre dans une société où il y a des lois, si j’ai eu la possibilité effective (et non simplement sur le papier) de participer à la discussion, à la délibération et à la formation de ces lois. Cela veut dire que le pouvoir législative doit appartenir effectivement à la collectivité, au peuple.

“Autonomia collettiva e autonomia individuale”

Cornelius Castoriadis

In “éu-polis” n.20 – Rivista critica di ecologia territoriale

RINGRAZIAMENTI

Ringrazio vivamente la cortese e presente collaborazione del Prof. Alfredo Canevaro, con la sua grande esperienza clinica, per la revisione critica del materiale e gli attenti suggerimenti che hanno guidato la stesura dell’elaborato.

NOTA

L’articolo trae ispirazione da diverse letture della rivista filosofica “éu-polis”. In ragione di questo i riferimenti bibliografici agli scritti del Prof. Toesca – e di altri autori del suo gruppo – vanno considerati come trasposizioni libere di idee e giudizi espressi in un ambito non psichiatrico, ma ritenuti simili e pertinenti. Non quindi un riferimento preciso a concetti tecnici, ma ad idee libere, raffinate, colme di sapienza e trasferite al campo psichiatrico.

 

BIBLIOGRAFIA

Dalla rivista “éupolis” (Direttore Pietro Maria Toesca)

Comitato tecnico-scientifico della Rete: “Facciamo parlare la città” ; in éupolis n.° 6 – 1991

Comitato della Rete: “Dalla città dei folli alle follie della città” ; in éupolis n.° 4/5 – 1991

Paolo degli Espinosa: “La libertà nella società tecnologica”; in éupolis n.° 28 – 2002

Franco Insalaco: “Partecipazione e democrazia”; in éupolis n.° 45/46 – 2007

Daniela Poli: “Le pratiche innovative di costruzione dello spazio sociale”; in éupolis n.° 20 1998

Pietro M. Toesca: “Definizione della città”; in éupolis n.° 0,3 1990

Pietro M. Toesca: “Diritti e potere”; in éupolis monografia I – 1999

Pietro M. Toesca: “Città-casa e territorio”; in éupolis n.° 0,1 – 1990

Pietro M. Toesca: “Città laboratorio”; in éupolis n.° 0,1 – 1990

Pietro M. Toesca: “Convivenza e rapporti materiali”; in éupolis n.° 0,1 – 1990

Pietro M. Toesca: “Cultura e politica della piccola città”; in éupolis n.° 4/5 1991

Pietro M. Toesca: “La teoria e la prassi”; in éupolis n.° 1 – 1991

Pietro M. Toesca: “Soggettività singolare e soggettività sociale”; in éupolis n.° 1 – 1991

Pietro M. Toesca: “Autonomia locale e razzismo”; in éupolis n.° 10/11 – 1992

Pietro M. Toesca: “Città, comunità, comune”; in éupolis n.° 7 1992

Pietro M. Toesca: “La società civile”; in éupolis n.° 7 1992

Pietro M. Toesca: “Il tabù del potere e la società obbediente”; in éupolis n.° 7 1992

Pietro M. Toesca: “La ricostruzione del soggetto comunitario”; in éupolis n.° 8/9 – 1992

Pietro M. Toesca: “Libertà va cercando ch’è si cara…”; in éupolis n.° 43/44 – 2007

Pietro M. Toesca: “Le forme spaziali dell’emarginazione”; in éupolis n.° 23 – 1999

Giovanna Tresalti: “Voce per un vocabolario critico: la libertà”; in éupolis n.° 43/44 – 2007

Francesco Scotti: “Lo scandalo della follia”; in éupolis n.° 17/18 – 1993

Francesco Scotti: “Psicoterapia”; in éupolis n.° 28 – 2002

Francesco Scotti: “La salute mentale e la città”; in éupolis n.° 20 – 1998

BIBLIOGRAFIA GENERALE

ASEN EIA, Heine Schuff, Psycosis and multiple family group therapy, Journal of Family Therapy (2006) 28; 58-72.

ASEN EIA, Multiple family therapy:an overview, Journal of Family Therapy (2002) 24; 3-16.

BADARACCO G., Comunità terapeutica a struttura Multi-Familiare, Franco Angeli, 1989.

BADARACCO G., PROVERBIO N., CANEVARO A., Terapia Familiar, Comunidad Terapèutica. Atti del 1° Congresso argentino di psicopatologia del gruppo familiare. Fundacìon ACTA, Buenos Aires 1970.

BAULEO ARMANDO, Note di psicologia e psichiatria sociale; Pitagora Ed. Bologna 1993

BAULEO ARMANDO, L’area del gruppale; prospettive della psicologia gruppale; in: I Sintomi della salute; Pitagora Editrice Bologna 1992

BAULEO ARMANDO, Ideologia, gruppo e famiglia; Feltrinelli 1978

BAULEO A., Lo spazio non logico della psicosi, in Clinica Gruppale Clinica Istituzionale – Poligrafo 1994.

BLEGER J., Psicoigiene e psicologia istituzionale; Liberia Editrice Lauretana 1989.

CANEVARO A., La Terapia Multifamiliare. Presentato nel 1° Congresso di Psicoterapia, Facoltà di Scienze Umanistiche, Buenos Aires, Novembre 1981.

CANEVARO A., La terapia familiare trigenerazionale, in Onnis L., Galluzzo W., (a cura di) La terapia relazionale e i suoi contesti, Nis, Roma 1994.

CANEVARO A., La psicoterapia per le famiglie del nuovo secolo, (Atti del seminario regionale novembre 2002 Ancona) in Terapia Familiare attualità e possibilità: Quaderni Edizioni Glatad 2003.

CANEVARO A., La storia di un progetto, in Ecologia della Mente, Il Pensiero Scientifico Editore 2/2008.

CANEVARO A., Comunità terapeutica e famiglie, in Formarsi per Coordinare, Materiali di ricerca COOSS Marche, quaderno n. 6 – Tipografia Zanzibar, Ancona 2004.

CAROZZA P., Principi di riabilitazione psichiatrica, Franco Angeli – 2006.

COHEN C. I., CORWIN J., A Further Application of Balance Theory to Multiple Family Therapy, Int. J. Group Psychother. 28: 195-209, 1978.

CORBELLA SILVIA Storie e luoghi del gruppo, Raffaello Cortina Editore – 2003

DE BRASI M, BAULEO A., I Sintomi della salute: psichiatria sociale e psico-igiene; Pitagora Editrice Bologna 1992

DE BRASI M., Il gruppo multifamiliare come campo trans-soggettivo; in L’orizzonte della prevenzione, De Brasi, Montecchi L., Pitagora Editrice Bologna 1998.

DE BRASI M., Suggerimenti per coloro che sono interessati ai gruppi; in: I Sintomi della salute: psichiatria sociale e psico-igiene. Pitagora Editrice Bologna 1992

FERRARI A., VISINTINI R., La tela di Penelope; Franco Angeli 2004.

FRAMO J. L. (1992), Terapia intergenerazionale, Cortina, Milano 1996.

LAQUEUR H. P., LABURT H. A., The therapeutic community on a modern insulin ward, J. Neuropsychiat. 3: 139-149, 1962.

LAQUEUR H. P., Multiple Family Therapy and General Systems Theory, Int. Psychiat. Clinics, 7: 99-124, 1970.

LAQUEUR H. P., Mechanism of Change in Multiple Family Therapy, in Sager C. J., and Kaplan H. S., (eds.) Progress in group and Family therapy, Brummel/Mazel, New York 1972.

LAQUEUR H. P., Multiple Family Therapy : questions and answers, Seminars in psychiatry 5: 195-205, 1973.

LAQUEUR H. P., Multiple Family Therapy in P.J. Guerin, Jr. (ed.), Family Therapy: Theory and Practice, Gardner, New York 1976.

LAQUEUR H. P., The theory and practice of multiple family therapy, in L.R. Wolberg and M. L. Aronson, Group and Family Therapy, 1980.

LEFEBVRE HENRI: Il diritto alla città Marsilio editori – 1970

LIBERMAN R. P., Réhabiltation psychiatrique des malades mentaux chroniques; Masson 1991

LIBERMAN R.P. (a cura di), La riabilitazione psichiatrica; Raffaello Cortina Editore 1997.

MADELBAUM E., Che cosa e’ la terapia familiare; in L’orizzonte della prevenzione, De Brasi, Montecchi L., Pitagora Editrice Bologna 1998.

MATERAZZI M.A., Considerazioni Sulla prevenzione, sulla salute mentale e sulla società attuale; in L’orizzonte della prevenzione, De Brasi, Montecchi L., Pitagora Editrice Bologna 1998.

MONTECCHI L.., Lo spazio urbano come prevenzione; in L’orizzonte della prevenzione, De Brasi, Montecchi L., Pitagora Editrice Bologna 1998.

MONTECCHI L., Produzione di soggettività; in Officine della dissociazione Cap. 1; Pitagora Editrice Bologna 2000.

McFARLANE W. R., Multiple Family Therapy in the Psychiatric Hospital, in H. Harbin (ed), The Psychiatric Hospital and the Family, 1983.

McFARLANE W. R., Multiple Groups in the Treatment of severe Psychiatric disorders. New York: Guilford Press, 2002.

MOSHER L.R., BURTI L., Psichiatria territoriale; Centro Scientifico Ed. . italiana 2002.

NERI C., Gruppo, Borla, Roma 1998.

PICHON RIVIERE E. Il processo gruppale; Libreria Editrice Lauretana 1986.

PIPERNO R., Oltre “La psicoeducazione” un gruppo multifamiliare con parenti di soggetti psicotici secondo un modello sistemico relazionale, Terapia Familiare n. 60, 1999.

REZZONICO G., RUBERTI S., L’Attaccamento nel Lavoro Clinico e Sociale. Esplorazione e sviluppo di nuovi modelli d’intervento, Franco Angeli, Milano 1996.

SERENI C., Atti del convegno Produrre Benessere (gli inserimenti lavorativi); Edizioni Croce Bianca, S. Severino M. – 2006.

SCALA ANTONIO, L’agire riabilitativo; Il pensiero Scientifico Editore 1998

STEINGLASS P., Grupos de Discusion Multi-Familiar para Pacientes con Enfermidad Mèdica Crònica, Fam. Syst. And Health 16: 55-70, 1998.

WORLD PSYCHIATRIC ASSOCIATION, Schizofrenia e cittadinanza; a cura di Casacchia, Pioli, Rossi, Il Pensiero Scientifico Editore – ed. italiana 2001

WEBGRAFIA

FOSTER LEWIS N., H. Peter Laqueur, the father of Multiple Family Therapy, the first model, http://hometown.aol.com/fosterlew/page6/index.htm .

HOWE J., Multiple-Family Therapy: a model for social worker’s at Children’s Homes, 1994, http://members.aol.com/fosterlew/page10/index.htm.

LAQUEUR H. P., Structures of disturbed families, http://hometown.aol.com/fosterlew/page6/index.htm .

MARI M., Livelli di intervento riabilitativo e loro collocazione nel processo terapeutico. In http://www.Psychomedia.it/pm/institehr/riab/mari1.htm

This entry was posted in Articoli. Bookmark the permalink.