Il Gruppo: integrazione, accoglienza, cura

di Simona Di Marco

Il lavoro clinico con richiedenti si svolge necessariamente in integrazione con il sistema dell’accoglienza e passa dall’incontro con gli operatori di SPRAR e CAS che sono, nella maggior parte dei casi, coloro che formulano la richiesta d’aiuto.

Partiamo dunque dal presupposto che la clinica in questo ambito sia una clinica di confine, decostruita e ricostruita attraverso una mediazione continua con altri sistemi e altri mondi.

Crediamo che una modalità di lavoro di gruppo sia essenziale nei vari ambiti e nei vari setting istituzionali sia dell’accoglienza sia della Cura.

Attraverso un setting di gruppo si può costruire una clinica integrata che tenga insieme aspetti sociali e sanitari.

Nel lavoro con i richiedenti evidenziamo diverse difficoltà dovute agli effetti del trauma e delle diversità culturali sulla relazione d’aiuto.

Sappiamo che i richiedenti sono portatori di vulnerabilità post-traumatica e sono pertanto ad alto rischio di sviluppare disturbi psicopatologici.

La vulnerabilità può emergere sotto forma di disagio psicologico nei luoghi di vita, nei CAS e negli SPRAR, in ogni momento del percorso di accoglienza.

Gli effetti del trauma possono rivivere nella relazione d’aiuto operatore-utente e generare difficoltà di comunicazione e vissuti emotivi molti intensi.

Sappiamo che è fondamentale intercettare precocemente la vulnerabilità affinché non diventi disturbo e non arrivi a compromettere il funzionamento sociale.

La fase di uscita dai percorsi di accoglienza può essere molto complessa soprattutto quando il progetto di   inclusione non è stato realizzato.

Questa è una fase molto difficile in cui il disagio psicologico può riemergere o manifestarsi per la prima volta.

Chi lavora nell’accoglienza è esposto quotidianamente agli effetti del trauma.

Gli effetti traumatici dei richiedenti si trasmettono in chi li ospita e si riflettono a livello delle istituzioni. Ma soprattutto le conseguenze del trauma rivivono nella relazione operatore-richiedente.  In questa relazione d’aiuto sono contenuti importanti aspetti terapeutici.

L’operatore dell’accoglienza è infatti la prima persona con cui il richiedente può costruire una relazione umana e gettare le basi per una esperienza di fiducia.

Possiamo dunque supporre che vi siano aspetti transferali e controtransferali che si sviluppano nelle relazioni fra il richiedente e il sistema dell’accoglienza e della cura.

Ci sono transfert positivi e negativi che il richiedente sviluppa nei confronti dell’operatore e dell’Istituzione dell’Accoglienza.

A volte l’operatore può essere investito da un potere molto grande e da aspettative che possono apparire irrealistiche.

L’operatore può a sua volta, sviluppare diversi tipi di controtransfert. Pensiamo che possa sentirsi frustrato se investito da aspettative troppo grandi o provare ambivalenza quando deve rispondere a mandati istituzionali nei quali non si riconosce.

Possono inoltre svilupparsi vissuti emotivi correlati alle differenze culturali e ad incomprensioni di codici e linguaggi (contro-transfert culturale).

E che tipo di tranfert sviluppa il richiedente nei confronti dell’Istituzione sanitaria o della salute mentale?  Che tipo di fantasie, aspettative, corrispondenze si mettono in moto? Dove si incontrano gli equivalenti dei nostri luoghi di cura?

E che tipo di controtransfert si attiva in noi operatori sanitari?

La relazione con queste persone passa dunque attraverso tutti questi elementi che, se non vengono riconosciuti ed elaborati, possono condizionare la relazione d’aiuto e influire sulla riuscita del percorso di accoglienza.

Come sostiene Abdelmalek Sayad “ci sono elementi controtransferali che, se non riconosciuti e contenuti, possano generare relazioni violente ed espulsive”.

Pensiamo che il dispositivo gruppale possa proteggere da tutti questi aspetti.

Partiamo dall’utilizzo del setting gruppale nella clinica.

Nella clinica con i migranti i nostri riferimenti teorici sono quello etnopsichiatrico e quello etnopsicoanalitico di Devereux e Nathan.

“E’ un tipo di setting quello di gruppo”, come sostiene Nathan, “al quale il migrante più facilmente si appoggia, in quanto in esso riconosce la propria cultura gruppale”.

Il gruppo inoltre apporta dei vantaggi ai terapeuti proteggendoli da emozioni intense che il contatto con l’alterità suscita.  Permette l’elaborazione del controtransfert e la sua trasformazione in strumento di conoscenza.

Se nel setting, sia esso individuale o gruppale, si riattivano le relazioni del pazienti, si può affermare come sostiene Bleger che, “nel caso dei migranti, nel setting gruppale, si riattivino i legami con le matrici culturali originarie”.

“Il dispositivo gruppale”, secondo Nathan, “consente il passaggio da un dialogo della coppia “paziente-terapeuta” ad un dialogo fra “gruppi sociali” (gruppo del paziente e gruppo del terapeuta)”.

Nel nostro setting di colloqui clinici all’interno del CSM (psichiatra, infermiere, psicologo e un assistente sociale) includiamo sempre il mediatore culturale e generalmente l’operatore dell’accoglienza.

Parliamo di un setting dunque che è interistituzionale, che mette insieme aspetti sociali, sanitari e culturali.

Riteniamo che la presenza dell’operatore dell’accoglienza nel setting possa svolgere diverse funzioni.

L’operatore può fungere da elemento di congiunzione fra sociale e sanitario; può favorire il racconto della storia del richiedente e aiutarlo ad esplicitare difficoltà nelle relazioni nel contesto di vita.

Abbiamo osservato che in alcuni casi la presenza dell’operatore ha invece ostacolato la libera espressione di vissuti del richiedente, questo soprattutto quando emergevano difficoltà nella relazione fra richiedente e operatore.

Il gruppo ha in questo caso funzionato anche come contenitore di aspetti tranferali e controtransferali generati nella trama di relazioni dentro i CAS e gli SPRAR.

La clinica con i migranti ci porta ad una riflessione su alcuni aspetti del setting (inquadramento): il tempo, lo spazio, i luoghi, il compito.

Il tempo del colloquio alla presenza del mediatore in genere si allunga, si raddoppia, si triplica.

E cosa pensiamo dei nostri luoghi?  Gli ambulatori di un CSM sono i luoghi più adatti per svolgere questa clinica di confine?

Ci siamo accorti di come anche il Compito dei servizi di Salute Mentale dovesse essere ridefinito in un lavoro di negoziazione con altre istituzioni e con altri sistemi.

Questa che segue è un’esperienza clinica che ci ha consentito di riformulare e sperimentare sul campo alcuni aspetti del setting e di rinegoziare la nostra funzione clinica.

Qualche mese fa alla nostra equipe clinica del Centro di Salute Mentale è arrivata, da parte di un CAS, una   richiesta di consultazione per un ragazzo che, nel momento di uscita dall’Accoglienza, manifestava un evidente disagio.

Ci siamo chiesti cosa succede a questo setting quando viene meno la cornice, quando per esempio una persona deve uscire dal suo CAS e non ha un posto dove andare a dormire.

E’ questo un momento in cui si interrompono legami e si lascia un contesto che è diventato familiare, si lasciano luoghi in cui si sono depositati sogni, speranze, bisogni e in cui si sono stabiliti rapporti umani.

Anche per gli operatori dell’Accoglienza accompagnare questo passaggio può essere difficile, soprattutto quando la persona che termina il suo percorso in un CAS non ha raggiunto una propria autonomia.  Il ragazzo per il quale eravamo stati consultati non aveva lavoro, né alcuna possibilità di autosostenersi ed era portatore di una vulnerabilità fisica oltre che psicologica.

Questo passaggio aveva generato in lui marcata sofferenza   e la preoccupazione di perdere anche il diritto di curarsi per i suoi problemi di salute.

Difficoltà nella gestione di questo passaggio erano emerse anche negli operatori.

La situazione che si stava delineando ci imponeva una riflessione sia sul nostro modo di fare clinica sia sul modo di utilizzare il setting.

Abbiamo dunque riformulato il nostro setting clinico di gruppo includendovi il ragazzo, la mediatrice culturale, gli operatori del CAS e gli operatori del dormitorio.

Abbiamo creato dunque   una equipe/gruppo di lavoro inter-istituzionale (3 istituzioni) che si riuniva nel dormitorio dove il ragazzo era stato inserito.

Ci siamo accorti di come la nostra funzione clinica andava rinegoziata su altri livelli di incontro.

E’ impossibile infatti lavorare sui bisogni psicologici se i bisogni materiali non sono soddisfatti (casa, cibo).

Né le storie con i loro contenuti culturali, i vissuti, le appartenenze, emergono al di fuori di un setting sicuro.

Ci siamo accorti che il disagio psicologico che emergeva (sintomi dissociativi, confusione, disorganizzazione), trovava nel gruppo il suo principale fattore terapeutico.

Il nuovo gruppo così composto si è fatto carico di garantire una coesione, di “tenere insieme i pezzi” di una identità che vacillava; ha funzionato da contenitore fisico e psichico dei bisogni psicologici e sociali.

Nel corso delle sedute la nuova equipe/gruppo ha creato una nuova operatività, un nuovo compito, riformulato sui nuovi bisogni del ragazzo.

Nel nuovo gruppo/equipe hanno trovato espressione aspetti transferali e controtransferali, che hanno potuto essere elaborati al fine di consentire la realizzazione di una nuova operatività.

Può succedere che, in questa fase (quella in cui la persona deve uscire dal CAS) un transfert positivo (del richiedente nei confronti dell’operatore) può diventare improvvisamente negativo (sentirsi espulsi da chi ci aveva accolti). Il richiedente può altrimenti depositare sull’operatore fantasie irrealistiche o salvifiche.

Supponiamo che l’operatore possa a sua volta provare vissuti di ambivalenza (deve rispondere al mandato istituzionale di mettere fuori una persona che non ha ancora raggiunto una autonomia).

Nel contesto del nuovo gruppo/equipe è stato possibile interpretare quanto stava accadendo in quella situazione (è difficile per voi operatori accompagnare questo passaggio) e, di conseguenza, ridurre l’ansia degli operatori del CAS e la loro fatica di sentirsi soli a sostenere il carico.

Nel gruppo/equipe si è osservata una resistenza iniziale che si opponeva all’operatività, dovuta al fatto che i componenti facevano riferimento alle loro isitituzioni di appartenenza e non riuscivano ad individuare un compito comune.

Nello svolgersi del processo gruppale il gruppo/equipe ha ridefinito un nuovo compito che aveva al centro i nuovi   bisogni del ragazzo.

Solo nel momento in cui il setting gruppale è diventato sicuro e il ragazzo ha iniziato a provare fiducia, i materiali culturali insieme ai vissuti e alla narrazione della soggettività hanno iniziato ad emergere.

Possiamo dire che abbiamo realizzato una diagnosi operativa (e non una diagnosi psichiatrica).

In quei giorni abbiamo lavorato oltre il nostro orario istituzionale, mantenendo, oltre agli incontri in gruppo con il ragazzo, una rete di sms, mail, telefonate con gli operatori del dormitorio.

Pensiamo che questa rete abbia restituito confine e continuità e abbia permesso al ragazzo di sentirsi “tenuto” e di “tenere” in questo passaggio. Ha inoltre contenuto le nostre ansie, quelle degli operatori del CAS e quelle degli operatori del dormitorio e ha trasformato le identità professionali di ciascuno.

Noi operatori dell’equipe di consultazione abbiamo sentito sulla pelle il rischio in cui scivola la Psichiatria: il rischio di psichiatrizzare il disagio sociale e psicologico; il rischio di agire secondo schemi che ci sono familiari in risposta all’ansia e all’incertezza.

Abbiamo sperimentato quanto sia importante mantenere, nel primo periodo dopo l’uscita dall’Accoglienza, una continuità di interventi e di operatori che accompagnino il richiedente verso il nuovo percorso.

Ora il ragazzo è in un’altra città e ha portato con sé la bicicletta che noi, tutti insieme nel nuovo gruppo/equipe, gli avevamo regalato. La stessa bicicletta   che, come una specie di oggetto transizionale, lo aveva accompagnato già nel passaggio dal CAS al dormitorio.

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