Esperienze in campo coi gruppi operativi

In questo lavoro cerco di rappresentare come io ho inteso e provato ad integrare nella mia pratica clinica

  1. la teoria del campo di M. e W. Baranger (secondo cui la diade paziente-terapeuta genera un campo, che – come Gestalt – differisce da ciò che ciascuno dei due poli della relazione è separatamente dall’altro, e che prevede tre livelli di strutturazione:
    • 1. il setting;
    • 2. la transazione verbale che si svolge in seduta (il manifesto);
    • 3. la fantasia inconscia, ovvero la struttura latente alla quale si accede col lavoro analitico (M. e W. Baranger, 1990) ;
  2. le teorie di Bion relative a:
    • funzionamento dell’apparato mentale (impressioni sensoriali → elementi β → Funzione α → elementi α; poi: → preconcezioni → concezioni → pensiero astratto, oppure: → pensiero come “un problema da risolvere” → apparato per pensare i pensieri, a seconda di realizzazione positiva (gratificazione) o negativa (frustrazione sopportabile), ecc.) (W. Bion, 1970)
    • concetto di rêverie (W. Bion,1972) ,
    • legami L, H e K (+ e –) (W. Bion, 1972),
    • funzionamento dei gruppi (considerati come totalità, con aspetti manifesti e latenti, che tendono a strutturarsi in forme particolari – assunti di base – a seconda delle forze in campo) (W. Bion, 1971); e
  3. la teoria dei Gruppi Operativi di Pichon-Riviere, che considera il compito come l’elemento motivazionale fondante del gruppo, al quale questo si relaziona e tende dovendo superare resistenze e ostacoli latenti, oltre che manifesti; il terapeuta (coordinatore del gruppo), che non fa parte del gruppo allo stesso titolo degli integranti, ha un compito diverso: quello di aiutare il gruppo a superare le resistenze latenti (i bastioni, direbbero i Baranger) che ne ostacolano il lavoro ed impediscono il raggiungimento degli obiettivi (E. Pichon-Riviere, 1971) .

Alla luce di queste teorie, qui appena accennate, immagino e mi rappresento il funzionamento di un gruppo come schematizzato in Fig. 1: gli elementi α e β che si producono all’interno del gruppo vanno a determinare la natura dei legami col compito, di carica + o –, a seconda del prevalere del flusso di elementi α o β rispettivamente. Ai legami L (love), H (hate) e K (knowledge) descritti da Bion mi sono permesso di aggiungere il legame B (beauty), in accordo col pensiero di Meltzer, che ha descritto come anche l’impatto estetico col mondo (in primis con la madre) dia luogo ad un legame conflittuale con l’oggetto che può influire in maniera determinante sulle altre dimensioni del legame[1].

Fig. 1 – Relazione gruppo/compito

La Fig. 2 rappresenterebbe quindi quello che idealmente accade nel caso di un gruppo terapeutico coordinato con tecnica operativa: l’atteggiamento non passivo e neutrale, ma attivamente astinenziale del terapeuta (coordinatore), operante senza memoria e senza desiderio[2], creerebbe una perturbazione del campo, una sorta di vuoto, che – come il sonno (vuoto di coscienza) fa coi sogni – sarebbe in grado di attirare a sé e accogliere gli elementi β, che verrebbero poi trasformati – grazie alla funzione di rêverie terapeutica – in elementi α da restituire al gruppo in forma narrativa, in accordo col “…modello a forte impronta narrativa dell’intreccio delle emozioni del campo attuale come luogo di tutti i precipitati storici e fantasmatici di paziente e analista” di A. Ferro (1999, 105). Questo processo modificherebbe le forze in campo in modo tale da intensificare le cariche + dei legami col compito, e da ridurre quelle –, sostenute dagli elementi β, responsabili delle strutturazioni in assunto di base del gruppo.

Fig. 2 – Funzionamento Gruppo/Compito/Coordinatore

A titolo esemplificativo riporto in sintesi una seduta di psicoterapia di gruppo, iniziata da circa 9 mesi, da me coordinata con tecnica operativa, con la presenza di un osservatore non partecipante[3], che leggeva gli emergenti a venti minuti dal termine di ogni seduta. Le sedute, della durata di 1h e 30’ ciascuna, erano a cadenza settimanale. Il termine della psicoterapia, definito all’inizio della terapia, era previsto dopo un altro anno. Il gruppo era composto da sei pazienti (5 maschi e 1 femmina), che si disponevano tutte le volte come rappresentato in Fig. 3.

Fig.3 – Disposizione consueta in gruppo degli integranti e dei terapeuti.

Elementi di contesto della seduta in oggetto erano rappresentati dal fatto che:

la settimana precedente non c’era stata seduta per un impegno dei terapeuti;

non c’era stata neppure quella di tre settimane prima, perché cadeva in giornata festiva;

dopo altre due sedute ci sarebbe stata l’interruzione per le vacanze natalizie.

Mancavano due integranti, 2M e 5M; solo quest’ultimo aveva telefonato per avvisare della sua assenza. All’inizio della seduta 6F (unica femmina del gruppo) si spostava sulla sedia vuota di 5M, dicendo che era più comoda. Lo stesso faceva 3M, spostandosi sulla sedia lasciata vuota da 2M (Fig. 4).

Fig. 4 – Disposizione degli integranti nella seduta in oggetto

Iniziava 1M, sollecitato da 4M, a raccontare dei suoi incontri infruttuosi organizzatigli dall’agenzia matrimoniale alla quale si era rivolto per trovare moglie, con commenti e interventi poco partecipi da parte degli altri. Un mio senso di disagio si focalizzava presto sulla sensazione di avere la gamba dx addormentata; non la sentivo più, e pensavo che se fosse arrivato 2M e io mi fossi dovuto alzare per andare ad aprirgli la porta, avrei faticato parecchio a stare in piedi. Muovevo quindi la gamba per riattivare la circolazione.

A quel punto 3M raccontava di essere molto triste, perché la madre, che negli ultimi cinque anni sembrava invecchiata di quindici, tre giorni prima aveva avuto un ictus, era stata ricoverata in Neurologia e aveva la gamba dx paralizzata! Raccontava poi che pure il padre aveva avuto diversi ictus, che l’avevano portato a morte all’età di 84 anni. Viveva quindi «un momento triste per la malattia della madre ed un momento felice per il bimbo» che gli era nato quattro mesi prima e cresceva bene; la moglie avrebbe voluto svezzarlo, ma la pediatra consigliava di aspettare ancora due mesi. Passava quindi a raccontare che avevano cominciato a portarlo in una piscina, ove facevano attività motoria per neonati in acqua riscaldata: un genitore scendeva in acqua col bimbo, che doveva indossare un costumino contenitivo, e l’altro stava fuori a guardare.

1M parlava poi di dolori allo stomaco e dolori artrosici (cervicale) che lo facevano sentire «un cinquantenne». 6F si diceva arrabbiata con se stessa, si sentiva una «ottenne… come si dice?… Di 8 anni!» per atteggiamenti infantili avuti con le colleghe di lavoro. 4M si sentiva invece un sedicenne: aveva visto un film sulla legione straniera e aveva fantasticato di arruolarsi per i lauti guadagni dei mercenari. Da qui cominciavano a parlare dei vari lavori che avrebbero voluto fare, ed 1M verbalizzava la sua «rabbia per la posizione degli psichiatri, perché lavorano sulle idee, sulle nostre esperienze che noi filtriamo, ma l’idea è diversa da quello che sentiamo noi. Io la invidio questa cosa… Da quanti punti di vista si può analizzare quello che diciamo? … Perché voi psichiatri pensate di capire tutto?» . E 3M incalzava: «Anche io mi chiedo: come posso risolvere il mio problema della pipì e della cacca parlando qui?», riferendosi a suoi gravi disturbi fobico-ossessivi.

Dicevo allora che mi pareva che la terapia fosse ora «come gli slip contenitivi del figlio di 3M: fuori fate le vostre esperienze, le filtrate e le portate qui, come la pipì! Senza gli slip contenitivi, il suo bambino non potrebbe fare l’esperienza – piacevole e salutare – di immergersi nell’acqua calda della piscina!». 6F chiedeva: «Quand’è che ci date una mano?», come chiedesse: «chi curiamo noi: il cinquantenne, il sedicenne, l’”ottenne”…?»

Seguivano vari scambi circa il possibile funzionamento del gruppo, i vissuti relativi al lavoro terapeutico ed i suoi effetti, anche negativi: sempre 6F: «La scorsa settimana ho detto che venerdì non ci sarebbe stato il gruppo, ed il mio moroso mi ha risposto: “Sarà un week end bellissimo!”. A voi non fa questo effetto? Anche questa sera, prima di venire, ero tristissima!» Si chiedevano poi come si sarebbero rapportati tra loro se si fossero conosciuti prima della psicoterapia. E 3M: «Sento che questa volta con la psicoterapia più il bambino potrei saltarci fuori dai miei problemi… Abbiamo rinunciato a prendere casa, perché mio fratello mi ha fatto presente che non è il caso che io chieda dei soldi in prestito a mia madre, anziana e ora ammalata, potrebbe averne bisogno lei… La notte che mia madre ha avuto l’ictus io mi sono svegliato di soprassalto, urlando dal dolore: sognavo che mi aveva colpito un fulmine ed avevo un male tremendo alla gamba dx! Poi la mattina ho saputo del suo ictus… Fatti analoghi mi sono successi altre tre volte. So che è difficile crederlo…»[4].

Nel mio intervento finale dicevo: «Ė come se tutto il gruppo stesse dicendo che certi cambiamenti si possono fare, sì, ma quando si hanno forze autonome sufficienti. Ė come che il gruppo si muovesse in una terra straniera, con grandi possibilità di guadagno, ma anche rischi, e si interrogasse sul ruolo di noi terapeuti: condottieri di legionari, o contenitori (e al massimo manipolatori) di esperienze già filtrate e digerite, come gli slip contenitivi del bambino di 3M? O come, continuando nella metafora della piscina, una mamma che scende in acqua col bambino – il coordinatore – ed un papà che sta a guardare – l’osservatrice? Avete quindi bisogno di vedere se abbiamo capito – da genitori attenti – quanto sia difficile per voi saltare una seduta in questo momento, e quanto sia importante per voi questo appuntamento settimanale. Viaggiava all’inizio la fantasia che le sedie vuote – quelle degli assenti, due, come due sono state le sedute saltate questo mese – fossero le più comode, le più desiderabili. Ma la scorsa settimana quali erano le due sedie vuote – le più comode – visto che non c’è stata la seduta per impegni dei terapeuti? Si faceva anche un’altra fantasia (“E se ci fossimo incontrati prima di iniziare la terapia?”), che alludeva alla possibilità di fare a meno dei terapeuti-genitori, che si limitano ad occupare le sedie più comode… Allora, “come funziona la terapia?”, chiedevate. Si lavora su quello che accade qui. 3M ne fa quotidianamente esperienza col figlioletto: c’è un bambino che cresce bene, non parla ancora, è contento, sta bene, ma la pediatra dice: “Non abbiate troppa fretta di svezzarlo, è ancora troppo presto!” Il gruppo parrebbe incarnare quella parte bambina, potenzialmente evolutiva, che sta crescendo e che ha l’opportunità di vivere un’esperienza benefica e piacevole – come il bimbo di 3M in piscina – per la quale è necessario dotarsi di slip contenitivi (le regole del gruppo), di un ambiente a temperatura ottimale per immergersi in quest’esperienza, di un genitore che si cali con lui in quest’ambiente, di uno che stia ad osservare… E di un pediatra attento che raccomandi di non aver troppa fretta, per il suo bene, di procedere allo svezzamento!»

Considerazioni conclusive

A mio parere la concezione dei Gruppi Operativi di Pichon-Riviere ben si sposa con quelle di Bion e dei coniugi Baranger, precisando meglio come il compito (anche nel caso di un gruppo terapeutico, ove il compito è la cura in gruppo) non sia nelle mani del terapeuta, ma rappresenti uno dei tre poli – o vertici – che definiscono e orientano le forze in campo. Questo non implica una deresponsabilizzazione del terapeuta, che deve anzi essere “garante che le trasformazioni che avvengono in seduta vadano – usando il linguaggio di Bion – da β ad α e non per confermare le teorie dell’analista ma per rendere pensabile al paziente ciò che prima non lo era” (Ferro, 1999, 109). Il compito del terapeuta, necessariamente asimmetrico rispetto a quello del gruppo, implica la rinuncia da parte sua all’assunzione di ruoli onnipotenti, volentieri attribuitigli dal gruppo, a fronte di angosce depressive, abbandoniche e di morte – come nell’esempio clinico riportato. Qui, il sogno di 3M, in potente identificazione proiettiva con la madre, richiamava il mito della nascita prematura di Dioniso, con l’implicita richiesta dell’intervento di ermetiche divinità onnipotenti per permettergli una rinascita miracolosa (guarigione)[5]. Più modestamente, ma in modo realisticamente più utile, il terapeuta, come genitore sufficientemente buono, può offrire al gruppo un setting che “tenga” – uno slip contenitivo (per usare metaforicamente il racconto dello stesso paziente) – ed un vigile sleep (attenzione fluttuante) pieno di rêverie, per riportarlo gradualmente dalla dimensione mitica (utopica, atemporale, dominata dal fatum, il già detto, e dalla stereotipia), a quella storica, lineare, evolutiva, progettuale e che implica assunzione responsabile del proprio destino.

Vittorio Vandelli è psichiatra, psicoterapeuta, socio ordinario dell’A.F.P.P.( Associazione Fiorentina di Psicoterapia Psicoanalitica).

Note

[1] “Questo è il conflitto estetico, che può essere definito più precisamente nei termini dell’impatto estetico dell’aspetto esteriore della «bella» madre, fruibile dai sensi, e l’interno enigmatico che deve essere costruito da una creativa immaginazione.” (D. Meltzer, 1989, 42).

Quindi le RELAZIONI FONDAMENTALI, ricalcando il modello di Bion, potrebbero essere:

1. x ama y = LEGAME L (Love) + = x L y

2. x odia y = LEGAME H (Hate) + = x H y

3. x conosce y = LEGAME K (Knowledge) + = x K y

4. x ammira y = LEGAME B (Beauty) + = x B y

Esempio: x K y = ESPERIENZA EMOTIVA DOLOROSA , che dà inizio a:

®Tentativo di MODIFICAZIONE, adoperando la relazione x K y in modo tale che si finisca con l’avere una RELAZIONE IN CUI x POSSIEDA UN BRANO DI CONOSCENZA CHIAMATO y; oppure:

®Tentativo di FUGA, mediante una sostituzione del significato “x possiede un brano di conoscenza chiamato y” con uno tale che alla fine x K y , invece che un’esperienza emotiva dolorosa, stia a rappresentarne un’altra che viene IMMAGIMATA NON DOLOROSA = NEGAZIONE DELLA REALTA’; l’esperienza emotiva è falsata in modo che si evidenzi come adempimento (=falsita’) e non come aspirazione all’adempimento (=verita’). (Bion, 1972, 83-92)

[2] “Con ciò non intendo dire che basti ‘dimenticare’: ciò che è necessario è piuttosto un atto positivo di trattenersi dalla memoria e dal desiderio.” (Bion, 1973, 46)

[3] Ruolo assunto dalla Dott.ssa Giuliana Boni, psichiatra e psicoterapeuta di Modena.

[4] «Per esempio, se un paziente si lamenta di aver avuto un dolore alla gamba, dobbiamo noi supporre, nel contesto adeguato, che egli ha sognato di aver avuto un dolore alla gamba o dovremmo considerare che qualche volta il contenuto manifesto di un sogno è una serie di dolori anziché una serie di immagini visive che sono state verbalizzate e collegate dalla narrazione?» (W.R. Bion, Gli elementi della psicoanalisi, Armando, Roma, 1973, p.34).

[5] “… Zeus, travestito da uomo mortale, ebbe un’avventura segreta con Semele («Luna») figlia di Cadmo re di Tebe, e la gelosa Era, assunte le sembianze di una vecchia vicina, consigliò a Semele, già incinta di sei mesi, di fare una singolare richiesta al suo amante: che egli cioè cessasse di ingannarla, rivelandosi a lei nella sua vera forma forma e natura. Altrimenti essa avrebbe potuto sospettare che si trattasse di un mostro. Semele seguì quel consiglio e, quando Zeus rifiutò di accondiscendere, gli negò il suo letto. Il dio allora, furibondo, le apparve fra tuoni e folgori e Semele ne morì. Ma Ermete salvò il bambino: lo cucì infatti nella coscia di Zeus dove egli potè maturare per altri tre mesi, e a tempo debito venne alla luce. Ecco perché Dioniso è detto «nato due volte» o anche «il fanciullo della doppia porta».” (R. Graves, 1983, 46-47)

Bibliografia

· BARANGER, M., BARANGER, W. (1961-62), La situazione psicoanalitica come campo bipersonale, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1990.

· BION, W.R. (1961 a), Esperienze nei gruppi, Armando, Roma, 1971.

· BION, W.R. (1961 b), Una teoria del pensiero, Tr. It. in: Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, cit.

· BION, W.R. (1962), Apprendere dall’esperienza, Armando, Roma, 1972.

· BION, W.R. (1967), Analisi degli schizofrenici e metodo psicoanalitico, Armando, Roma, 1970.

· BION, W.R. (1970), Attenzione e Interpretazione, Armando, Roma, 1973.

· FERRO, A. (1985), Capacità di rêverie, contenimento e rapporto oggettuale nella mente dell’analista di bambini, Psichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, 52, pp. 505-514.

· FERRO, A. (1992), La tecnica nella psicoanalisi infantile- Il bambino e l’analista: dalla relazione al campo emotivo, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1992.

· FERRO, A. (1999), La psicoanalisi come letteratura e terapia, Raffaello Cortina Editore, Milano, 1999.

· GRAVES, R. (1955), I miti greci, Longanesi & C, 1983.

· MELTZER, D. (1988), Amore e timore della bellezza, Borla, Roma, 1989.

· PICHON-RIVIERE, E. (1971), Il processo gruppale, Libreria Editrice Lauretana, Loreto, 1975.

 

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