Storie alienate e liberate

di Leonardo Montecchi

(…)
Le parole scendono rare
chi le collega più
sembra meglio ascoltare
in due
Il tuo corpo e tu
(…)
Elio Pagliarani  ” La ballata di Rudy”

 

Proverò a fare la storia dei gruppi che ho attraversato negli anni provando a mostrare come si passa dalla alienazione alla liberazione attraverso il lavoro che i gruppi fanno per raggiungere il proprio compito.

Già perché  è il compito che fonda il gruppo, non è il leader, non è il coordinatore.
Gli integranti si riuniscono perché implicitamente o esplicitamente si pongono un obiettivo, una finalità, un compito.
Mi sono interrogato e mi interrogo ancora su cosa sia il compito: è uno scopo, un motivo che attrae persone che altrimenti vivono la loro traiettoria  di vita senza interagire.
Sono sempre di più convinto che il compito sia un “attrattore strano” perché ha una dinamica caotica  e imprevedibile, inoltre in un gruppo, cioè un “insieme di persone riunite da costanti di spazio e tempo e articolate dalla loro rappresentazione interna” come dice Pichon Riviere, si produce un auto-chiarimento che va dall’implicito all’esplicito, questo processo interpretativo non ha una forma circolare, è aperto, non si esaurisce mai ed ha una forma frattale: è una spirale.

Ma le storie alienate?
Sono le storie che vengono raccontate all’inizio di un gruppo, le storie su cui spesso si ritorna anche in seguito in un movimento di vai e vieni. Non ci si libera mai totalmente da queste storie.
Quando ci si incontra ognuno arriva con il proprio immaginario, con un gruppo interno, ognuno viene con i propri stereotipi, quelle forme di pensiero rigide e non basate sull’esperienza che formano i pilastri dell’abitudine.


La vita quotidiana è dominata da un’ideologia fatta di stereotipi, l’alienazione consiste nella serialità caratterizzata da routine che si ripetono nell’illusione di dominare il caos, come le compulsioni degli ossessivi o i riti nei funerali come difesa dall’ansia depressiva, come diceva Elliot Jaques.
Insomma, le storie alienate che compaiono quando inizia un gruppo operativo ricordano le ombre della caverna di Platone.
Ognuno viene portando la storia del proprio gruppo interno che inizialmente è intriso dall’appartenenza istituzionale. Questo impasto istituisce un soggetto posticcio che si atteggia “come se” fosse quello che sta facendo.
Ad esempio, in gruppi che si riuniscono in istituzioni sanitarie le persone si presentano come: sono un medico, un infermiere, un educatore, un assistente sociale, uno psicologo, ecc. Se si tratta di una scuola si presentano come il professore di lettere la professoressa di matematica il bidello ecc..
Nei gruppi terapeutici spesso si presentano come schizofrenico,  borderline, bipolare ecc., con una ulteriore regressione della identità ad una diagnosi posta da un dispositivo medico psichiatrico che contribuisce alla reificazione della persona.
Questo slittamento verso una personalità “fattica”, come dice José Bleger, disegna una regressione dell’essere sociale verso un modo di essere alienato in cui l’essere si riduce al fare e l’io si divide, come diceva Laing, in una parte legata a ciò che si fa o che siamo costretti a fare, ed una parte “vuota” che genera ansia e paura della libertà.
Per esempio, un operaio è forza lavoro: capitale variabile da impegnare nel processo produttivo, ma è anche un soggetto rivoluzionario quando sciopera con gli altri operai e riempie il vuoto prendendo coscienza del suo essere sociale.
Le storie alienate che si raccontano all’inizio di un gruppo provengono da questi ruoli posticci, sono monologhi che non implicano interlocutori ma solo spettatori silenziosi. Questi monologhi sono espressione del narcisismo che ostacola la costruzione di vincoli nel qui ed ora.
Il monologo è favorito anche dal dispositivo del gruppo. Se, ad esempio, le persone sono disposte per file orizzontali con uno che vede tutti e tutti che vedono uno, come in chiesa o a scuola, è facile che qualcuno “salti in cattedra” e cominci a parlare come se dovesse fare una predica o un comizio.
Quando invece le persone sono disposte sullo stesso piano e possono vedersi tutte ed interagire allora il monologare fa sì che ciascuno degli integranti intervenga come se fosse rivolto verso l’esterno del gruppo e parlasse da solo senza aspettare una interlocuzione.
Il gruppo può rimanere in questa situazione in cui si presentano monologhi di storie alienate ricche di stereotipi fino a che non si comincia a sentire intimità fra gli integranti.
L’intimità inizia quando si cominciano a percepire gli altri, all’inizio come in mezzo alla nebbia che poi si dirada e fa comparire volti, persone, corpi.
Pichon Rivière, e con lui Armando Bauleo, parlano di mutua rappresentazione interna.
Che cosa significa?
Significa che la pressione del compito comincia a produrre degli effetti.
Il tempo, lo spazio, le funzioni, come variabili indipendenti, fanno sì che il romanzo del gruppo, per dirlo alla Bachtin, non sopporti più la forma a monologo.
Questa forma assomiglia all’assunto di base di dipendenza di cui parla Bion a proposito di situazioni che si ripetono inconsapevolmente nei gruppi.
Ma, quello che ci interessa oggi, è capire come e perché avvenga il passaggio da una forma ad un altra.
Sto pensando ad un gruppo come ad un insieme che non è la semplice somma delle parti.
È qualcosa di più, con una propria forma in movimento, è “questo gruppo qui ed ora con me”.
Perché questa realtà prenda coscienza di sé è necessario che si percepisca un dentro ed un fuori.
Questa percezione è legata al campo in cui si presenta il gruppo, in quel campo, e solo in quel campo, si producono vincoli specifici fra gli integranti che fanno sì che ad un certo punto del processo caotico qualcuno si renda conto che in quell’incontro qualcuno manca.
Questo è il segno che nel campo gruppale si è costituita una inter-soggettività.
Il fatto che un integrante noti quella mancanza rompe uno stereotipo secondo cui non ha importanza chi c’è e chi non c’è, infatti non viene segnalata la mancanza di una funzione o di un ruolo. Manca una persona che aveva narrato un racconto di sé. Non manca la sua storia, il suo monologo alienato, che ora sta al posto della persona, manca il suo corpo, il suo sorriso, il suo odore, i suoi cenni, il suo modo di muoversi. Manca la sua singolarità, quella mancanza fa emergere, per associazione, altre mancanze che si sono presentate in altre situazioni.
Quando in un gruppo si segnala una mancanza, si segnala contemporaneamente la presa di coscienza di una “mutua rappresentazione”, mutua perché quando si dice manca “tizio”, tutti gli integranti capiscono di chi si tratta, perché hanno internalizzato la matrice vincolare che costituisce il gruppo. Tizio sarà  simpatico a qualcuno, antipatico ad un’altra, qualcuno lo ricorderà per un tratto, un altro per un altro tratto. Ma se ne viene segnalata la mancanza significa che esiste nella trama vincolare di quello specifico gruppo, nella intersoggettività.
La segnalazione esplicita un contenuto implicito: forse molti stanno pensando a tizio e a come mai non c’è in quel incontro, ma nessuno lo dice, molti pensano che non sia pertinente parlare di un assente, altri che se ne potrà parlare dopo al bar o nel corridoio, comunque fuori dal campo del gruppo e non con tutto il gruppo.

Perché qualcuno viola queste clausole mute?

Lo fa perché sente una pressione che proviene dal compito, ma anche dal gruppo.
Quella pressione lo attraversa per la sua storia personale e gli fa sentire il desiderio e la necessità di enunciare il fatto che “oggi manca Tizio”, invece di riprendere il monologo stereotipato che si riferisce a situazioni, tempi e luoghi esterni al qui ed ora.

Quell’enunciato è un emergente, cioè un segno che l’interpretante riferisce al compito inteso come oggetto dinamico.
Cioè, il compito di quel gruppo si rende manifesto attraverso l’enunciato di un integrante che si rivolge agli altri integranti nel qui ed ora, così procede il lavoro di autochiarimento del  gruppo, che non riuscirà mai ad esaurire il compito nel senso che l’implicito non si espliciterà mai totalmente.
Infatti, il lavoro di esplicitazione genera continuamente nuovo implicito, così come la presa di coscienza produce nuovo inconscio.
Però, l’enunciazione della mancanza di Tizio cambia l’ordine del discorso del gruppo, l’ha già cambiato solo per il fatto di esplicitarlo, quel fatto rompe la routine, e attraverso il varco si instaura un nuovo ordine, una nuova forma perché, ad esempio, un Caio diventa interlocutore di quel qualcuno che ha segnalato la mancanza di Tizio,
” tu sai perché non è venuto?”
Caio inaugura una diversa narrazione, l’inizio di una storia liberata, perché lo stereotipo si è rotto ed ha liberato una certa quantità di ansia, molti si stanno chiedendo “ma cosa succede?” Qualcuno si sente perseguitato da questa nuova situazione, qualcun altro rimpiange già la vecchia, molti sono confusi.
La storia che si produce davanti a tutti  è fatta di un dialogo fra le due persone che si interpellano sulla mancanza di un terzo che viene sentito come appartenente al gruppo. Il dialogo fra i due pone gli altri nella posizione di sfondo come il coro nella tragedia greca, e la constatazione della mancanza di un terzo nella coppia dialogante crea in tutto il gruppo la sensazione di “speranzosa  attesa” del ritorno di Tizio, come se l’impasse in cui si trovano si risolvesse con un ritorno messianico.Bion chiama questa situazione che si ripete nei gruppi: assunto di base di accoppiamento.
Ma è Bekett a descriverla in “Aspettando Godot”.
Lì, i nostri due integranti del gruppo diventano Vladimiro ed Estragone e Tizio è Godot.
Ma, ancora, non ci sono storie liberate, c’è l’attesa di un liberatore che non arriverà mai; per la concezione operativa di gruppo questa è ancora una situazione di pre-compito, sono già diventati un gruppo, la trama vincolare internalizzata fa riconoscere un interno ed un esterno, c’è una certa intimità che fa sì che le persone si riconoscano, non c’è più l’indiscriminazione dell’inizio fra il fuori ed il dentro e fra l’uno e l’altro dei partecipanti, tuttavia il clima di “speranzosa attesa” fa sì che il lavoro sul compito venga rimandato all’arrivo o al ritorno di chi manca. C’è la coscienza ma è una coscienza infelice.
Quando “tornerà Tizio allora potremmo finalmente risolvere i nostri problemi” dice uno e l’altro ribatte “certo lui  sa come affrontarli ci può capire….”
Ora  l’alienazione non riguarda più una storia esterna al gruppo: un’ombra vista sulla parete della caverna, ora si parla di qualcuno che ritornerà, forse lo schiavo che si è liberato dalle catene del mito di Platone che, come è noto, quando torna non viene creduto e fa una brutta fine.
C’è una altra via che appare quando qualcun’altro, ad un certo punto, interrompe il dialogo e dice: “si è vero che manca Tizio, ma noi possiamo prendere la Bastiglia anche senza di lui”
Il noi trasforma il gruppo in un soggetto collettivo, il soggetto di una prassi.
L’esempio della presa della Bastiglia è nella Critica della Ragione Dialettica; Sartre ci dice che l’individuazione di quello che noi chiamiamo compito ci fa uscire dalla serialità e fa nascere un gruppo in fusione. Cioè, un gruppo che lavora sul compito che si è dato implicitamente o esplicitamente. Qui non ci sono più storie alienate ma si tracciano storie liberate, non vi sono più monologhi né un dialogo ma una polifonia di voci e comportamenti che convergono sul compito.
A volte “prendere la Bastiglia” è quello che succede in una fila che aspetta l’autobus quando c’è uno sciopero dei mezzi o quando, come nel film “Lista de espera”, si è rotta la corriera.
O in una compagnia teatrale che deve mettere in scena una pièce, una squadra di calcio che deve giocare una partita, una équipe di un centro di salute mentale o una scuola che non riesce a capire qual è il suo compito e così via.
Il compito è uscire dalla situazione, come nell’Angelo Sterminatore di Bunuel: diventare operativi, lavorare tutti in quel campo per il compito comune: trovare una via di fuga.
Come ho già detto, il compito è un oggetto astratto che non si esaurisce mai e, talvolta, genera un progetto che permette di cambiare la situazione attuale verso una dimensione futura.

Rimini 20/10/2017

Bibliografia
Enrique Pichon Riviere. Il processo gruppale. Lauretana
Armando Bauleo. Psicoanalisi e gruppalità. Borla
José Bleger. Simbiosi e Ambiguità. Armando
Elliot Jaques. L’istituzione come sistema di difesa dall’ansia persecutoria e depressiva in Nuove vie della psicoanalisi. Il Saggiatore.
Michail Bachtin. Dostoevskij.  Einaudi
Wilfred Bion. Esperienze nei gruppi.  Armando
Platone.  Opere. Bompiani
C. Sanders Peirce. Opere. Bompiani
Samuel Beckett. Aspettando Godot.  Einaudi
Jean Paul Sartre. Critica della ragione dialettica. Il saggiatore
Leonardo Montecchi. Varchi. Pitagora

Filmografia
Juan Carlos Tabio.  Lista de espera
Luis Bunuel. L’angelo Sterminatore

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