Soteria: tra esodo e appartenenza. Dalla Comunità… verso una “clinica della comunità”

di Gilberto Maiolatesi (Responsabile Comunità “Soteria”)
e Marzia Pennisi (Coordinatrice Comunità “Soteria”)

PREMESSA

 “Ricordo di aver pensato che gli schizofrenici sono i poeti strangolati della nostra epoca. Forse per noi, che dovremmo essere i loro risanatori, è giunto il momento di togliere le mani dalle loro gole.”

Con questa frase di David Cooper abbiamo a che fare ogni giorno, quando iniziamo il nostro lavoro di terapeuti e di operatori psichiatrici, queste righe sono all’entrata della nostra comunità  quotidianamente ci dobbiamo fare i conti.

Ma la nostra riflessione parte da lontano e il modo di intervenire oggi e la storia e i perché del progetto della “Comunità Soteria”, forse hanno a che fare con la storia del movimento antipsichiatrico e antiistituzionale in Italia, a cominciare dalla Riforma psichiatrica e dalla cosiddetta “rivoluzione basagliana”.

Il 13 marzo del 1978, nasceva in Italia la L. 180 che di fatto concludeva, con un atto legislativo, l’esperienza della custodia manicomiale, imponendo la chiusura degli Ospedali Psichiatrici (OP).

Possiamo tranquillamente sostenere che in Italia, gran parte degli interventi psichiatrici si sviluppano all’interno delle cosiddette strutture intermedie.

Dopo quasi 30 anni dall’attuazione della Legge 180, che poneva fine alla pratica e all’utilizzo dei manicomi, si sono sviluppate sempre di più servizi, dove il “folle”, viene inserito per iniziare percorsi di risocializzazione e programmi riabilitativi psico-sociali.

In realtà tutto questo, si traduce troppo spesso in delega pressochè totale dei familiari e della società alle strutture istituzionali.

Il rischio di creare nuovamente piccoli e moderni manicomi è evidente e non basta avere piscine, campi da tennis, saune…per non essere una istituzione chiusa e totale. Non è sufficiente fare psicoterapia, attività riabilitative e laboratori occupazionali, per costruire identità fortemente alternative e antagoniste al manicomio.

Ogni istituzione totale toglie dignità, reprime, estorce diritti, nega democrazia, contribuisce alla formazione di sintomi, produce malattia. Nel manicomio (istituzione totale per eccellenza insieme al carcere) non esiste né passato né futuro, esiste solo il presente, sempre lo stesso, giorno dopo giorno, immobile presente senza tempo, dove non c’è “vita” e cambiamento, bensì “morte” e staticità. Il manicomio, insomma, non si pone  il problema della trasformazione.

 

COMUNITA’ COME LABORATORIO DELLA TRASFORMAZIONE

Il nostro orizzonte  ideale, che ha determinato e determina l’intervento terapeutico quotidiano, si colloca in piena continuità con  quello storico movimento che negli anni ‘60-’70 ha criticato, combattuto e vinto le logiche custodialistiche e le istituzioni manicomiali.

La Legge 180, è stato lo strumento legislativo che ha permesso, nel lontano 1978, il progressivo smantellamento degli ospedali psichiatrici e l’inizio di una nuova epoca per la sofferenza psichica.

Si stava abbattendo una delle più vergognose e violente opere del genere umano: i manicomi, che andavano chiusi, e in alternativa aperti luoghi di “cura” e di socialità, dove l’intervento terapeutico si coniugava, e si coniuga, con la battaglia per i diritti di cittadinanza, contro lo stigma sociale e il pregiudizio.

Dentro questa cornice si esprime il nostro lavoro.

Ore, settimane, mesi, vissuti insieme ai nostri utenti, sempre più convinti che l’utilizzo e l’affinamento delle più moderne tecniche riabilitative non sarebbero mai sufficienti a restituire “abilità sociali”, voglia di vivere, autonomia, dignità a uomini e donne che hanno trascorso troppo tempo “prigionieri”  all’interno del loro mondo, isolati dagli altri mondi possibili.

In questi anni abbiamo capito che essere dei “bravi tecnici  specialisti” non può bastare.

E’ NECESSARIO “ESSERCI”. Perché “…l’affetto è prassi di essere presente, cioè pratica costante dello stare insieme come ci ricorda Massimo Marà nel suo libro “Comunità per psicotici”.

All’interno del nostro programma di attività settimanale abbiamo in effetti diversi gruppi (funzione dell’abitare, di convivenza, di ascolto e organizzativi, espressivi, terapeutici, multifamiliari…).

L’importante però, è fare le cose insieme e trovare dei momenti per discutere e ascoltare, anche con i pazienti più gravi e regrediti.

Indubbiamente un elemento  fondamentale del nostro agire è il rapporto con il sociale, con la città: l’intervento socio-riabilitativo dentro la nostra realtà territoriale.

Purtroppo nulla di tutto questo è scontato, anzi molta strada abbiamo ancora di fronte a noi per una oggettiva cittadinanza del disagio mentale e per un reale rispetto della diversità.

La lotta allo stigma e al pregiudizio, la battaglia per i diritti, l’integrazione, si raggiungono con la visibilità, con la rivendicazione della propria diversità, della propria storia, della propria intima sofferenza.

Detto questo, dovremmo “vivere” e utilizzare la comunità come luogo dove si sperimenta la trasformazione, ma anche come luogo e strumento della trasformazione.

In entrambi i casi per TRASFORMAZIONE dobbiamo sempre intendere modificazione delle relazioni interpersonali, della comunicazione patologica, metamorfosi dei propri stati interiori intrapsichici; ma anche TRASFORMAZIONE come processo di liberazione, come superamento e stravolgimento dei rapporti sociali alienati i quali producono inevitabilmente  malattia e sofferenza.

TRASFORMAZIONE quindi come riappropiazione del potere decisionale da parte di chi, mistificato e sottomesso, per una intera vita ha dovuto chiedere sempre il permesso a qualcuno, anche per comprare un semplice pacchetto di sigarette.

 

COMUNITA’ COME SETTING E SPAZIO PROGETTUALE

Soteria è un servizio gestito dalla Cooperativa Sociale Cooss Marche. in convenzione con il Dipartimento di Salute Mentale di Jesi. Il 3 maggio 1999 nasce come  struttura socio-riabilitativa di tipo residenziale che accoglie 12 pazienti di diverse patologie psichiatriche con evidenti difficoltà nella sfera relazionale e un basso livello d’autonomia, con una significativa potenzialità evolutiva e capacità di recupero a livello relazionale e sociale. In effetti, gli obiettivi principali dell’attività riabilitativa sono la riappropriazione della propria soggettività da parte del paziente  e  il miglioramento generalizzato della qualità della vita, accanto al raggiungimento del massimo livello d’autonomia possibile, limitando contemporaneamente il rischio di “crisi involutive”.

La Comunità intera può essere vista come un unico setting, nel quale viene praticato un intervento multifattoriale ( farmacologico, assistenziale, riabilitativo, di sostegno psicologico, psicoterapico) prevedendo una serie di attività, a livello individuale e gruppale, strutturate a loro volta come sottosetting. Gran parte della vita della Comunità è pensata e organizzata in sottosetting con precisi confini spazio-temporali-metodologici (tempo, spazio, ruoli e compito)  ciò per tre importanti ragioni: 1)contenere l’ansia, l’angoscia e l’aggressività dei pazienti (e degli operatori); 2)osservare i complessi fenomeni psichici e relazionali che si verificano all’interno della vita  comunitaria; 3)costruire una “realtà condivisa”.

Ma poichè la costruzione e conservazione di setting si basa sulla adesione e sul rispetto delle regole concordate, è necessario prevedere alcuni momenti di confronto con i pazienti (e altri solo tra operatori) per discutere, condividere, ribadire, ridefinire, eventualmente modificare, regole, programmi, organizzazione e metodi di lavoro.

 

Strategie terapeutico-riabilitative

L’istaurarsi di rapporti “affettivi” significativi tra pazienti e tra paziente e operatore rappresentano il primo vero elemento terapeutico. Il “fare insieme” permette di sperimentare comportamenti più adeguati e nel frattempo il riemergere di fattori motivazionali assopiti, interrompendo la spirale dei fallimenti. Il lavoro del gruppo-comunità tende quindi a:

  • rafforzare l’autonomia e l’autodeterminazione soggettiva,
  • far riemergere le capacità motivazionali e espressive,
  • riscoprire la socialità e lo star bene con gli altri,
  • rafforzare l’autostima e la capacità di subire frustrazioni,
  • gestione della propria impulsività ed emotività,
  • favorire l’autogestione dei propri spazi vitali,
  • supportare quando ci sono le condizioni, un avvicinamento al mondo del lavoro.

 

Il lavoro terapeutico-riabilitativo può essere suddiviso in due macro aree: una più strettamente psicologica e l’altra di tipo sociale.

Attività psicologica:

  • colloqui individuali (sempre più limitati),
  • incontri di gruppo (gruppo terapeutico settimanale, gruppo di convivenza giornaliero, Assemblea di Comunità settimanale, gruppo multifamiliare mensile ),
  • incontri periodici con il paziente e i propri familiari,

Attività di tipo sociale

  • cura di se e dei propri spazi,
  • web radio,
  • giardinaggio e verde,
  • inseriementi lavorativi e sociali,
  • inserimenti in gruppi sportivi,
  • attività ricreative,
  • attività espressive e artistiche

 

L’ETICA DEL CAMBIAMENTO E DISPOSITIVO MULTIFAMILIARE: DALLA LEGGE DELLA FAMIGLIA ALLA LEGGE DELLA CITTA’

L’esperienza del Gruppo Terapeutico Multifamiliare (GMF) nasce all’interno della Comunità Socio Riabilitativa “Soteria” di Jesi nel settembre del 2000, esattamente dopo un anno dal’apertura della Comunità, grazie agli stimoli provenienti dalla supervisione clinica condotta dal Prof. Alfredo Canevaro sin dall’apertura del servizio.

Di seguito, in modo sintetico e schematico, gli aspetti fondamentali per una riflessione collettiva.

 

  1. Il setting

Gli incontri si tengono all’interno della Comunità a frequenza mensile (il terzo lunedì del mese) con una durata di 90 minuti, preceduti da un momento conviviale di circa 20 minuti. Alla fine di ogni gruppo l’equipe di lavoro si incontra per circa 45 minuti per rielaborare i vissuti e la molteplicità dei transfert, controtransfert e identificazioni proiettive sviluppatisi all’interno della seduta gruppale appena conclusa.

Il gruppo per il primo anno e mezzo è stato condotto (senza un co-conduttore) dal Dott. Gilberto Maiolatesi, Direttore Responsabile della Comunità con una supervisione mensile all’equipe del Prof. Canevaro, utilizzando anche le registrazioni degli incontri ai quali partecipavano gli ospiti della Struttura con le loro famiglie e gran parte del gruppo degli operatori (non solo quelli in turno).

Uno dei limiti evidenziati in quella fase era legato alla modalità di comunicazione “a stella”, cioè diretta solo dagli integranti del gruppo verso il conduttore; limite di partenza di tutti gli incontri, probabilmente amplificato dall’ambivalenza del ruolo coordinatore del gruppo/ Direttore della Comunità.

Nel 2002 si decide, all’interno della supervisione, di modificare il setting terapeutico con l’ingresso del Prof Canevaro come conduttore del gruppo e il Dott. Maiolatesi come co-terapeuta.

Questa seconda fase ha posto una rottura con il passato e ha portato ad un cambiamento molto positivo grazie all’esperienza del Prof Canevaro, ma anche perché la coterapia è fondamentale per una buona riuscita di un gruppo come il multifamiliare e, inoltre, in quel momento era fondamentale  avere più chiarezza nel ruolo del coordinatore gruppale.

Dal 2005 ad oggi il gruppo è condotto in co-terapia dal Dott. Maiolatesi e dalla Dott.ssa Marzia Pennisi.

Tutti gli operatori presenti possono intervenire all’interno del gruppo per evitare una comunicazione “radiale”, non circolare e quindi bloccata. In alcune occasioni utilizziamo delle tecniche esperenziali e di drammatizzazione attraverso la comunicazione non verbale e gli aspetti emozionali per facilitare l’incontro affettivo tra gli integranti. L’utilizzo di “io ausiliari” o tecniche tipo quella dello “zaino” (specie se si affrontano i temi legati allo svincolo dalla famiglia d’origine)  sono molto utili perché  a volte la comunicazione e l’interpretazione verbale non sono sufficienti al cambiamento.

Oltre alla coppia (sempre complementare) di coterapeuti, il dispositivo prevede un operatore con il ruolo di osservatore partecipante la cui funzione è quella di raccogliere gli emergenti gruppali.


  1. Origini: la definizione della situazione ambientale

 Il  contesto interno

Il GMF nasce  per uscire da una crisi interna al gruppo  di lavoro e per correggere quindi una comunicazione disfunzionale dell’equipe “giovane”, formata da operatori con poca esperienza in psichiatria che si trovavano ad intervenire e  supportare un utenza molto grave. Questo produceva tensioni interne, manifeste e latenti e una comunicazione entropica, confusiva e ansiogena.  Nello stesso tempo c’era il bisogno di definirsi, di trovare un percorso costituente identitario, tenendo in considerazione una naturale “vocazione antipsichiatrica” della Comunità. Gli operatori si sentivano  troppo isolati e “chiusi” oltre il cancello della Comunità, lontani dal tessuto urbano jesino. Questo portò al bisogno di uscire e di scendere dal colle in cui è situata la Struttura ed entrare all’interno della Città (nelle piazze, negli spazi di aggregazione, nelle scuole…) con progetti di promozione della salute mentale. Nasce così, insieme al gruppo multifamiliare, la Rassegna “Malati di Niente”. Possiamo dire oggi, in maniera (anche) provocatoria, che c’è stato un passaggio dalla “legge della famiglia” alla “legge della città”.

Le difficoltà riguardo alla comunicazione erano anche rispetto al rapporto operatori-famiglie in quanto quest’ultime all’inizio facevano molta difficoltà ad incontrarsi tutti insieme e discutere delle proprie problematiche, mentre nel tempo è diventato quasi naturale. E per dirla con le parole di una madre del gruppo: “…mi rendo conto che oramai non vengo per mio figlio, vengo per me, per curare la mia solitudine…mi fa bene incontrarvi…”

       Il  contesto esterno

La nostra città è situata in un territorio che ha visto uno sviluppo industriale e manifatturiero importante dagli anni ‘50 – ’60, che ha modificato strutturalmente l’economia  da agricola ad industriale (tanto da definire Jesi la piccola Milano delle Marche). Storicamente la nostra è stata una città con forti connotazioni democratiche e antifasciste, provenienti direttamente dalla guerra di liberazione, determinando un “humus culturale” proficuo a strutturare senso di comunità e forti legami sociali. Rispetto allo stigma e al pregiudizio nei confronti del disagio mentale, Jesi presentava due facce della stessa medaglia; una città dove  il pregiudizio verso il “matto” era abbastanza forte anche a causa di un fatto grave avvenuto nel 1979 ad un anno dalla legge Basaglia:  l’uccisione di un carabiniere da parte di un paziente seguito dai servizi. Dall’altra una città  indignata per un fatto accaduto nel 1999 nei confronti di un paziente, aggredito e malmenato per noia da alcuni giovani della “jesi-bene” nella sua abitazione.

Sempre in quel momento storico il Dipartimento di Salute Mentale era in fermento e in fase di cambiamenti istituzionali. Infatti nel 1995 iniziano i primi gruppi riabilitativi e di incontro con i familiari e pazienti e nel 1998 nascevano le prime strutture intermedie della riabilitazione psicosociale.

 

  1. Il cambiamento e la rottura di un paradigma

Nella nostra esperienza clinica abbiamo potuto constatare che il dispositivo multifamiliare non ha rappresentato soltanto una tecnica o uno strumento in più, magari più appropriato,  ma un vero e proprio cambiamento epistemologico, una cesura storica con il paradigma medico psichiatrico novecentesco, non solo nella relazione terapeuta-paziente.

In tutti questi anni abbiamo potuto osservare dei notevoli processi di apprendimento e cambiamento rispetto a vari aspetti. Ad esempio per quanto riguarda la comunicazione disfunzionale ed entropica sia della famiglia che dell’equipe di lavoro. Le famiglie e gli operatori sono molto più capaci di comunicare in maniera orizzontale senza doversi sempre e solo riferire al Responsabile della Comunità come leadership unica.

Rispetto alla  necessità di creare una rete sociale e di interagire IN e CON essa, negli anni abbiamo imparato a pensare alla cura come un intervento reticolare multidisciplinare e, quindi, a riferirci costantemente con istituzioni, enti pubblici, associazioni di volontariato, cooperative sociali.

Per quanto riguarda l’esigenza di modificare i dispositivi organizzativi interni del servizio e le metodologie di lavoro, siamo riusciti a strutturare anche dei gruppi comunitari come l’assemblea di comunità settimanale dove si discute in maniera democratica dei problemi anche pratici del vivere in comune. Questo diventa un luogo di recupero della soggettività nell’esercizio di una comunicazione non gerarchica ma orizzontale.

Altro elemento da sottolineare, ad esempio, è quello della discussione e condivisione di alcuni progetti terapeutici riabilitativi (per esempio anche le dimissioni di un paziente) all’interno dell’incontro multifamiliare. Quindi la discussione gruppale si dimostra vera, propositiva e decisionale.

Inoltre abbiamo notato dei notevoli cambiamenti rispetto ad una maggior consapevolezza nel correggere onnipotenza e narcisismo del paziente e  dell’operatore specularmente intrappolati nel delirio e nella sua interpretazione (“…sono il figlio di Dio…”; “ho capito…ci penso io e ti guarirò”)

 

DAL SETTING-COMUNITA’ AL SETTING-CITTA’  

Noi, operatori psichiatrici, che lavoriamo quotidianamente nel settore della riabilitazione e dell’inserimento sociale dei pazienti, denunciamo troppo spesso una intolleranza e una diffidenza verso il diverso, verso l’escluso, ed è per questo che istituzioni, associazioni, strutture operative del settore, cooperatori, dovrebbero farsi carico di una vera e propria promozione culturale della salute mentale nei territori; dove riversare idee ed esperienze, mettendole a confronto con i desideri e le angosce di chi soffre, ma anche con le paure, l’intolleranza, lo smarrimento di una collettività sempre più in difficoltà ad accogliere senza remore, a riconoscersi senza escludere.

In effetti i presupposti della Riforma psichiatrica tendenti a sviluppare una coscienza critica e una trasformazione dell’organizzazione sociale, attraverso la partecipazione della collettività a tutte le forme di emarginazione, sono rimasti troppo spesso sulla carta, non realizzati. Ma con tutti i limiti che possiamo trovare alla Legge 180 (più che altro per la sua non applicazione), certo non possiamo e dobbiamo tornare indietro, perché nulla è più come prima, perché abbiamo appena iniziato a restituire a quelle persone ridotte a “matti da legare”, lo statuto di cittadini, il diritto di esistere dentro quel contratto sociale da cui erano stati definitivamente espulsi in modo del tutto improprio.

Anche per questo la battaglia contro lo stigma e il pregiudizio verso la persona sofferente è, e rimarrà, l’obiettivo primario per quanti credono che ogni essere umano ha il diritto di migliorare la propria qualità di vita e che il disturbo mentale è un “male oscuro”, dove i termini relazionali e socio-culturali rivestono una importanza cruciale, a volte drammatica.

 

La “clinica della comunità”: il laboratorio permanente di “Malati di Niente”

Nel lontano settembre 2000 nasce il progetto “Malati di Niente”.

In quel periodo a Jesi un gruppo di operatori della Comunità “Soteria” aveva iniziato ad interrogarsi sul senso del proprio lavoro nei servizi psichiatrici, sulla natura del mandato sociale, sull’etica e sul significato della riabilitazione psicosociale a più di vent’anni dall’emanazione della Legge 180. Ci si chiedeva, tra dubbi e stati di ansia confusiva, se la famosa e tanto discussa  “rivoluzione basagliana”, non avesse completamente esaurito la propria spinta propulsiva.

Sicuramente la Legge 180, aveva rappresentato lo strumento legislativo che  permise il progressivo smantellamento degli Ospedali Psichiatrici e l’inizio di una nuova epoca per la sofferenza psichica. Si era chiusa una delle più vergognose e violente opere del genere umano, l’esperienza manicomiale, con la possibilità e la speranza di aprire luoghi di cura e di socialità dove l’intervento terapeutico esce fuori dal setting tradizionale, per entrare in quello comunitario, coniugando terapia e battaglia per i diritti di cittadinanza.

Proprio noi, operatori psichiatrici, essendo i soggetti più esposti, dovevamo mandare un segnale alla comunità e alle istituzioni. Nelle lunghe discussioni, emergeva sempre più nitidamente l’idea di un progetto di promozione culturale della salute mentale nei territori, nelle comunità. Un progetto “etico-politico-terapeutico” l’avevamo poi definito e nominato nel tempo, dove riversare idee ed esperienze mettendole a confronto con i desideri e le angosce di chi soffre, ma anche con le paure, l’intolleranza e lo smarrimento di una collettività sempre più chiusa, autistica, in difficoltà ad accogliere senza remore, a riconoscersi senza escludere.

Feste, concerti, spettacoli teatrali, mostre, cinema, dibattiti seminari…la città e le sue piazze vengono invase e “occupate” da iniziative ed eventi che determinano progressivamente una nuova sfera politica pubblica.

Dopo 15 anni di lavoro, di progressi e crisi regressive, almeno due degli obiettivi progettuali originari, ci sembrano ancora molto stimolanti ed attuali: 1)promuovere la salute mentale attraverso processi di  contaminazione culturale e l’intervento sociale sul territorio,  in maniera specifica e approfondita all’interno delle scuole cittadine grazie all’attivazione dei Laboratori di cittadinanza (con gli studenti del Liceo Classico e delle Scienze Umane,Liceo Artistico, IIS-Liceo Scienze Sociali); 2)costruire e attivare  un reale lavoro di rete con i movimenti sociali, l’associazionismo, i servizi, le istituzioni, il mondo della cooperazione e del volontariato.

Anche per l’anno 2016 i Laboratori di cittadinanza comprenderanno gli stage formativi all’interno della nostra Comunità, inizieranno nei mesi di maggio, giugno e novembre, dove gli studenti faranno tirocinio pratico, interagendo direttamente con i nostri ospiti, attraverso le varie attività gruppali terapeutico-riabilitative affiancando gli operatori in servizio.

 

Jesi, 6 aprile 2016

 

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