Marzo 2020 – Marzo 2022: vicende di un paradgima concettuale e operativo

di Marella Tarini
(Direttore UOC STDP Senigallia – Responsabile Funzionale DDP AV2 – Asur Marche)

Il nostro gruppo di lavoro, un’istituzione pubblica attiva nel settore delle dipendenze patologiche, ha abbracciato da molti anni un’ipotesi che interpreta le disfunzioni di cui si occupa concentrando il suo focus intorno alle dinamiche e ai fenomeni gruppali, istituzionali, comunitari e collettivi.

Il sintomo emerge dai movimenti del gruppo (in primis quello familiare) e della collettività a cui appartiene chi lo manifesta ed è in questi ambiti, quindi, che si ritiene opportuno intervenire; e le risorse per affrontare le problematiche che si configurano e per le quali viene portata la richiesta di intervento si strutturano, a loro volta, attraverso il processo operativo del gruppo- équipe, che è multiprofessionale e transdisciplinare.

Giusto due anni fa il setting necessario agli utenti e agli operatori per l’applicazione di questo paradigma, costituito da incontri cadenzati di soggetti incarnati, con i loro corpi, con la loro configurazione emotiva, il loro mondo interno ed il loro assetto mentale, che si riuniscono in un luogo fisico ben determinato, viene improvvisamente stravolto. E’ attraversato da una potente interferenza trasversale, che lo trafigge violentemente e lo rende inattuabile: l’impossibilità di realizzare e vivere la presenza per via di un rischio infettivo che attraversa la collettività e che è affrontato dalle macroistituzioni con perentorie misure   restrittive, che impongono la soppressione di esperienze collettive, il distanziamento e la copertura facciale.

 Il clima che repentinamente si instaura nel gruppo di lavoro è oscurato da spesse coltri paranoidi che si alternano a   sentimenti depressivi e colpisce la sicurezza ontologica delle relazioni.

La diversità dei pensieri e delle opinioni improvvisamente subisce una trasformazione nella percezione dei partecipanti: da ricchezza che alimenta e fa carburare il processo di costruzione e di trasformazione collettiva, così come era sentita, diventa repentinamente una pericolosa funzione destabilizzante, che potrebbe favorire un temuto scostamento dai dettami comportamentali rigidamente imposti dai gestori della situazione epidemica; si instaura un atteggiamento che porta ad aderire a tali disposizioni ancor prima di averle sottoposte a qualsiasi vaglio critico, ormai non più tollerato.

Nel gruppo di lavoro la tensione progettuale si sterilizza. I percorsi che hanno qualificato per tanto tempo gli interventi si interrompono. La spinta a ricercare collettivamente si arena. Ogni operatore si chiude nel proprio studio più a lungo che può e la gestione di processi di cura si appiattisce sulla esecuzione di atti stereotipati e ripetitivi, quelli ritenuti imprescindibili, inevitabili e non rinviabili, per lo più coincidenti con interventi esclusivamente medicalizzati e farmacologizzati.

Il colpo è molto duro: l’impedimento, la coercizione, la sottrazione di spazi di incontro espressivi e creativi, la frustrazione generata dalla mutilazione del desiderio in alcuni generano rabbia, una rabbia che vorrebbe trovare varchi costruttivi o vorrebbe configurarsi come forza per resistere, per non rinunciare al disegno operativo così a lungo elaborato ed affinato  : ma per lo più  sono la paura e la proiezione paranoidea a prevalere pervadendo l’aria e il tempo scorre ad evitare il contatto e a  garantire la rassicurazione, prodotta da comportamenti ossessivi di esorcizzazione dei rischi.

Un sistema che viene escogitato è quello del collegamento telematico: ogni professionista, che peraltro condivide con gli altri colleghi la fruizione dello stesso edificio, si connette da remoto via computer dalla propria stanza con gli altri, per ritornare a condividere elementi sensibili della relazione di accoglienza e di cura: ma questa modalità introduce un vissuto profondamente diverso, lo si sente  nella pelle e nella percezione interna: finiamo per  parlare di aspetti centrali del rapporto terapeutico, come per esempio del transfert suscitato in una particolare situazione e del controtransfert che si è generato, con una qualità metallica, bidimensionale ed appiattita, in cui la condivisione è inquinata dalla distanza corporea e dall’impoverimento della risonanza reciproca.

Il tempo scorre ancora e gli effetti della trasformazione si radicalizzano.

Mano a mano, però, almeno alcune situazioni di collegamento e di incontro tornano a rappresentarsi come inevitabili e necessarie per qualificare il lavoro. Di buono c’è che “il richiamo della foresta “si è fatto di nuovo sentire: il bisogno – desiderio di ritrovare la dimensione operativa collettiva e di recuperare il senso profondo della azione progettuale condivisa ha trovato il suo spazio per riemergere e cerca modalità per riconfigurare concretamente la meta. Seppur ancora con le protezioni facciali e con l’attenzione a non violare la distanza che ognuno reputa rassicurante, il dispositivo si ripristina: le riunioni d’équipe in presenza ricominciano e  riprendono anche gli incontri cadenzati interistituzionali.

L’offerta terapeutica invece non riesce a recuperare la sua articolazione storica: i gruppi di utenti, quelli per familiari e l’esperienza di gruppo multifamiliare sono stati sospesi dal momento in cui è stato espresso il divieto a riunire persone; lo strumento telematico, in certi casi proposto, non è stato accattivante ed è stato rifiutato. La resistenza a questo tipo di relazione è stata espressa sia dagli utenti che dagli operatori, che hanno considerato questo mezzo non adatto alla esperienza di condivisione intima, profonda e coinvolgente che si aspettano dalla partecipazione ad un gruppo.

Quindi, tutta la riflessione che nel tempo si è sviluppata intorno alle dinamiche del processo gruppale, al loro potenziale trasformativo, alla lettura e alla elaborazione della qualità dei vettori che segnalano l’andamento del percorso,  e tutto il pensiero intorno alla miglior configurazione strutturale del dispositivo, (se sia più utile, per esempio, una dimensione di gruppo aperta o chiusa, o quale sia la risorsa migliorativa di una composizione eterogenea rispetto ad una omogenea nella partecipazione degli integranti), concretamente, per il momento,  sono  annullati.  Ed è questa una grave perdita, è come una sottrazione di storia un tempo condivisa collettivamente, con il pensiero e con i sentimenti. Difficile anche continuare a pensare intorno al concetto, così intrigante, di malattia unica, o riflettere sulle risorse messe in campo dal dispositivo specifico del gruppo multifamiliare, con le sue opportunità di rispecchiamento, di utilizzo della esperienza dei transfert multipli e di sollecitazione potente ad affrontare l’uscita dalle posizioni simbiotiche ed agglutinate, perché non è in corso, di fatto, l’esperienza concreta, quella che restituisce vero apprendimento.

E’ in questo contesto climatico che, alcuni giorni fa, mi sono passati fra le mani alcuni scritti prodotti tempo addietro, ben prima che succedesse tutto questo, relativi a come poter pensare l’intervento intorno ad una particolare modalità di presentarsi della dipendenza patologica, ovvero quella da consumo di etile. Ho avuto un accesso di nostalgia, perché ho ritrovato, messo per iscritto, lo sforzo che si faceva insieme per considerare, con un pensiero che teneva conto della complessità, tanti aspetti relativi alla gestione interpretativa e terapeutica della dipendenza quando si configura come posizione disfunzionale, a partire, in quel caso, dall’evento rappresentato dal paziente etilista. Ho ritrovato l’attenzione a considerare la dimensione collettiva e comunitaria, quella istituzionale e macroistituzionale determinata dalla politica sanitaria, la riflessione sul modo di pensare la patologia, le valutazioni emerse dalle esperienze dei processi e dei dispositivi gruppali, e tanto altro ancora che può essere evinto leggendo tra le righe: e ho pensato che forse questo materiale non dovrebbe andare disperso, perché è testimonianza di un percorso  e di una elaborazione che non è diventata ormai un frutto inaridito, sommerso e spazzato via dal cambiamento degli ultimi tempi, ma piuttosto un ricordo che può avere ancora un senso evolutivo, e forse  lo si può considerare come uno dei tanti luoghi esperienziali da cui ripartire.

Per cui, ho pensato di dare completamento a queste righe, che hanno tentato di rappresentare il momento attuale, con la riproposizione del materiale datato che segue. Alcuni temi sono ripresentati e ribaditi in entrambi gli scritti.

Il primo prodotto è un contributo elaborato per i lavori di un congresso nazionale sul tema della complessità della tematica Alcologica e contiene un’analisi del contesto macroistituzionale e un accenno sulle ipotesi di trattamento a livello istituzionale; risale al 2009 ed è il seguente:


Dipendenza da etile, Istituzioni e Collettività

Negli ultimi anni il tema dell’uso di alcool e della dipendenza da etile si è presentato con forza sempre maggiore, sia per il passaggio all’evidenza di situazioni e comportamenti legati all’abuso che precedentemente abitavano l’ambito del sommerso, sia per l’effettivo aumento di condotte incentrate sul consumo “eccessivo” di alcolici.

Basti pensare al fenomeno rilevabile nei Servizi per il trattamento delle Dipendenze, secondo il quale sempre più frequentemente, accanto all’abuso e alla dipendenza da psicotropi di sintesi, si strutturano comportamenti caratterizzati dall’abuso alcolico, ad accompagnare la dipendenza principale o a sostituirla nelle fasi di remissione; o alle abitudini etiliche che coinvolgono ormai un grande numero di giovani, e sempre più precocemente.

Questi elementi farebbero supporre che la comunità nazionale si sia posta il compito di produrre risposte operative a ciò che dovrebbe essere riconosciuto come un disequilibrio, un problema di salute, individuale e generale, e che abbia quindi disposto risorse trattamentali con la stessa attenzione che si rivolge di solito alle manifestazioni patologiche a determinazione multifattoriale che coinvolgono una collettività.

Ma vediamo che le cose non stanno proprio così: se analizziamo i fatti, possiamo rilevare che forse anche le idee che circolano relativamente all’abuso e alla dipendenza da etile, comprese quelle di certa comunità scientifica, non considerano questa come una disfunzione a genesi multifattoriale, con tutta la complessità dei dispositivi operativi che ne dovrebbero conseguire: se davvero fosse riconosciuta e validata  l’interpretazione che vede il tema etilico come manifestazione patologica a determinazione complessa, vedremmo un sostegno concreto a percorsi che siano di cura, approfonditi e articolati, strutturati in termini integrati e multidisciplinari, adatti a gestire, appunto, tanta complessità.

Mi riferisco a processi che, oltre a preoccuparsi meramente di limitare o rimuovere alcuni sintomi o segni, attivino e facilitino il cambiamento degli individui e dei loro gruppi di appartenenza, favorendo il loro avvio verso una maggior consapevolezza e gestione di sé, magari in seguito alla formulazione di una richiesta autodeterminata di ingresso in trattamento.

Invece, se approfondiamo l’analisi studiando questo stesso periodo di indagine, e guardiamo al versante delle politiche socio-sanitarie che sono messe in essere in Italia, verifichiamo che non c’è sul territorio nazionale un effettivo incremento di servizi o di personale dedicato a questa problematica in espansione: per esempio, dal bollettino nazionale della rilevazione delle attività in tema di etilismo distribuito due anni fa, si evince che nella maggior parte delle regioni italiane si computano addetti al trattamento del fenomeno che, in proporzioni molto elevate,  lo sono solo a tempo parziale; fanno eccezione solo Friuli e Molise.

Nel caso degli addetti esclusivamente dedicati al tema, troviamo che la proporzione più alta spetta agli educatori professionali e agli assistenti sociali.

Il dato nazionale ci dice inoltre che il 51,4% del personale totale assegnato parzialmente o esclusivamente al trattamento dell’abuso e dipendenza da alcool è costituito da operatori sociali, i medici rappresentano il 21,5% e gli psicologi il 16,9%; il restante 10% è costituito da personale amministrativo o di altra qualifica.

Emerge una grande disomogeneità nella distribuzione regionale del personale addetto per qualifica professionale, ma comunque gli operatori sociali rappresentano la professionalità più frequente in ogni regione.

In cambio, come detto, l’utenza ufficiale è in costante crescita, si rileva un incremento di circa il 10% annuo negli ultimi tre anni, con una concentrazione di questo incremento nelle regioni del nord. Il 32% è rappresentato da nuovi utenti, il 68% da soggetti già in carico o rientrati dopo l’interruzione di un piano precedente.

Ciò ci porta a pensare che i dispositivi messi in essere per affrontare l’incremento della richiesta di presa in carico risultano non tanto dall’individuazione di nuovi Servizi o di nuove unità di personale addette, ma da una riorganizzazione di ciò che già esiste per il trattamento di altre situazioni problematiche e/o patologiche.

Ed un dato che risulta chiaro è che le politiche nazionali e/o locali pensano che per l’alcolismo siano da mettere in campo più che altro figure professionali che lavorano sull’emergenza sociale e nel campo della rieducazione.

Ora, è evidente a chi lavora nei Servizi che molto spesso ad una condotta di abuso alcolico si collegano situazioni di difficoltà sociolavorative, ambientali, economiche e comportamentali in senso lato, ma viene da osservare che questo accade con una frequenza che non è né più né meno quella che si registra per altre forme di dipendenza.

Qual è il concetto inespresso dunque che informa in Italia le scelte di politica sanitaria nel caso della dipendenza da etile? (E, verrebbe da estendere, nel caso delle dipendenze e dell’abuso di sostanze esogene?)

Viene da pensare infatti che queste scelte politico-organizzative vedano  le condotte di abuso etilico per la più parte come forme di emergenza sociale e come organizzazione di comportamenti devianti, da trattare perciò prevalentemente con interventi pedagogico-educativi o socioambientali, e non come situazioni che esprimono sofferenza e disfunzione,  non  come forme di disturbo che potrebbe essere affrontato con percorsi di elaborazione, da affidare quindi all’intervento di  professionisti della cura.

Ciò ci rimanda ad una riflessione relativa a come il tema dell’uso-abuso di sostanze, ed in particolare di etile, è stato inquadrato all’interno degli assetti culturali del nostro sistema occidentale: in particolare voglio riferirmi all’ambivalenza con la quale è visto il consumo di alcool; questa sostanza, inutile negarlo, è celebrata come simbolo di benessere sociale, di status, di omologazione significante a codici di gruppo a e valori comunitari, come sostanza centrale, persino, nella esecuzione di alcuni riti. Questa sostanza, potenzialmente così “alterante”, così capace di allentare e sovrastare le capacità di autocontrollo, è, dunque, ad un livello subliminale o implicito, carica di significati positivi, recuperati, promossi e sottolineati anche dai sistemi mediatico e pubblicitario: leggevo proprio ieri su un quotidiano locale che il trend più in auge di alcuni locali modaioli della riviera senigalliese si chiama “ Bevi e Vinci”, e consiste nell’invito a consumare più bevande alcoliche possibili, perché in abbinamento alla singola consumazione c’è la possibilità di vincere materiale informatico di nuovissima generazione o viaggi nei paesi esotici…… naturalmente sembra che l’iniziativa stia avendo un notevole successo, ed è lodata pubblicamente, in quanto in grado di aumentare la partecipazione della gente alle iniziative commerciali che qualificherebbero la città……. .

Nello stesso tempo, però, paradossalmente, questo ordine sociale enfatizza il tema del potere, del controllo, dell’onnipotenza e dell’esercizio della volontà, tematiche narcisistiche diffuse e condivise.

Nella nostra cultura, cioè, viene messa molta enfasi sul potere decisionale degli esecutivi, delle piramidi gerarchiche e infine dell’individuo e si assume che tutti gli aspetti della vita si svolgano per via dell’esercizio di questo potere, che diventa il principio organizzatore delle esistenze e degli eventi, anche collettivi. 

E per ciò che riguarda l’individuo, il senso comune acritico non accoglie l’idea che questi possa prescindere dal controllo preordinato su una situazione, che si possa fare esperienza di una qualche dipendenza, e che a volte si possa rimanere bloccati in questa posizione, quella dipendente.

La nostra cultura nega e svaluta sul piano manifesto la dipendenza, nonostante sia un’esperienza che invece dobbiamo incontrare all’interno dei nostri vincoli e nel normale svolgimento della nostra esistenza.

Lo stesso senso comune non può quindi considerare che, a volte, si possano creare situazioni per cui questa posizione si possa cristallizzare e possa bloccare i processi evolutivi, dato che non riesce ad intenderla nemmeno nella sua configurazione “sana”.

Come sappiamo, però, ciò che è negato o rimosso esiste e si manifesta prima o poi con forza maggiore e davvero si situa fuori dalla portata della gestione consapevole; cosicché questa stessa società onnipotente è in realtà profondamente incline a forme molto vaste e profonde di dipendenza individuale e collettiva, che si possono identificare facilmente, attraverso una lettura minimamente attenta di vari fenomeni diffusi e largamente condivisi, tra i quali l’abuso acritico di sostanze.

Questa scotomizzazione fa sì che generalmente l’emergenza di problemi sociali e sanitari collegati all’ uso di alcolici venga vista specificamente come il risultato del fallimento del sistema volitivo degli individui: secondo questa ottica, sembra che, nel caso in cui l’uso sfoci nell’abuso ed infine nella dipendenza, ciò che debba essere ricodificato sia il sistema della volizione e del controllo, attraverso interventi che a questo, e non ad altro, siano dedicati.

Tra l’altro, questo culto della volizione e del controllo porta inevitabilmente a sancire dall’esterno, con la forza delle norme, i livelli standard dei comportamenti, introducendo i sistemi di codificazione aprioristica di ciò che è appunto “a norma” e di ciò che non lo è, in una sorta di uniformazione dei criteri di accettabilità degli stili dei pensieri e delle azioni: così è anche per l’entità dei consumi di etile, la cui adeguatezza quindi in occidente viene stabilita all’interno di ranges chimico-biologici definiti, che poi possono essere utilizzati anche a scopo legale.

Credo che proprio questa visione, insieme ad altri criteri e motivi di ordine economico e politico, abbia fatto inquadrare il sistema degli interventi secondo la categoria della erogazione di atti rieducativi, che decisamente debbano essere brevi, e il risultato dei quali sia giusto la risoluzione comportamentale del recuperato controllo sugli usi, senza che i motivi dei consumi debbano essere criticati, rielaborati e trasformati, ed abbia escluso le più articolate emissioni di “cure”, quelle che sarebbero da prevedere per una problematica di salute psicofisica individuale e collettiva particolarmente complessa nelle sue determinanti.

Si è affermato cioè un clima professionale, appiattito sulla base di quello economico e politico, che rischia di minare profondamente il potenziale trasformativo di quelle cure incentrate sui percorsi di alleanza terapeutica, di quegli interventi che, per la elaborazione di problematiche complesse come questa che investono la persona ed i suoi gruppi di appartenenza, devono inevitabilmente essere pensati a congruo termine.

Infatti, questo sistema degli interventi “secchi e brevi”, chiamiamoli così, che si è affermato certamente non solo nel campo dell’alcologia, ma che più estesamente ha preso campo in tutto l’ambito, quanto meno, della salute mentale,  ha prodotto un numero inevitabilmente molto elevato di temporanee remissioni dei sintomi più eclatanti, seguite però dalla ripresa a rapida scadenza di tutte le problematiche; e ciò in quanto queste, evidentemente, appoggiano su condizioni di disturbo e sofferenza che non hanno trovato spazio e tempo per essere considerate e trattate.

Inoltre, questa impostazione così efficentista, potremmo dire, fa perdere di vista la complessità legata al fatto che individui o gruppi appartenenti ad altre culture, e mi riferisco ai cosiddetti migranti o immigrati, possono avere configurato un rapporto diverso con l’uso delle sostanze, e dell’etile in  particolare; e questo diverso criterio attraverso il quale questi individui “altri” intendono le sostanze rende gli standard condivisi in questa parte del mondo inadeguati a  leggere il loro comportamento, e a definire quando per questi si possa parlare di sintomo, di deviazione  in atto rispetto ad una condizione di salute , oppure no.

Questo tema dovrebbe trovarci sensibilizzati e pronti, perché il fenomeno migratorio è in evidente e prevedibile incremento nei nostri luoghi.

Anche in questo caso, l’elaborazione di una situazione forse patologica, di una condotta di abuso o di dipendenza, resa ancora più complessa dalla permanenza in situazioni geografiche e culturali che non sono quelle di origine, è pensabile solo all’interno di un percorso articolato che preveda uno spazio ed un tempo sufficienti  per elaborare gli stili della comunicazione e le modalità di costruzione dei vincoli, visto che questi, nella situazione attuale, sono riformulati in un assetto culturale diverso da quello in cui si sono stabiliti  quelli primari.

Persino nel nostro territorio, che ha una lunga storia di attenzione ai percorsi di integrazione fra servizi e fra istituzioni per la presa in carico ed il trattamento di problematiche ad alta complessità e valenza sociosanitaria, fino a pochi anni fa non era individuato il Servizio che a livello Sanitario Zonale doveva provvedere alla presa in carico degli utenti etilisti.

Quasi a confermare implicitamente ed inconsapevolmente un preconcetto che possiamo a tutt’oggi rilevare in media a livello nazionale, gli etilisti erano anche nella nostra zona trattati frammentariamente, spesso con interventi che non riuscivano a costruire una progettualità o un andamento progressivo per fasi articolate, e spesso entravano in azione presidi differenti che non sapevano l’uno degli interventi dell’altro.

Una delle risposte trattamentali che più frequentemente veniva restituita, al di là del momento del ricovero per l’adeguamento di alcuni indici somatici alterati dal consumo cronico della sostanza etilica, era il passaggio di competenze alla assistente sociale dell’area territoriale di riferimento; questa professionista spesso non poteva far altro che intervenire per rendere più snello il ricorso al ricovero successivo, rimedio da attivare in seguito al riproporsi della problematicità e alla eventuale manifestazione di disturbi comportamentali o di disagi nelle relazioni familiari.

Spesso coinvolte erano le forze dell’ordine, che intervenivano per contenere i problemi di ordine pubblico e/o privato che inevitabilmente andavano a configurarsi.

Questa ci è apparsa, ad un’indagine dedicata, un’emergenza sociosanitaria a tutti gli effetti; ci siamo interrogati sul perché fosse presente  questa  carenza e questa disorganizzazione nei dispositivi per il trattamento di questa questione clinica, abbiamo riflettuto ancora una volta su cosa pensiamo che sia una dipendenza da una sostanza, l’alcool, nella fattispecie: abbiamo quindi condiviso un punto di vista secondo il quale l’utilizzo “incontrollabile” di sostanze esogene, tra cui l’etile , è da leggere come sintomo di una perturbazione profonda dell’assetto psichico individuale, ma questa  perturbazione emerge da ciò che si è svolto e si svolge all’interno del gruppo di appartenenza di questo individuo, da qualcosa  che ha impedito l’individuazione libera da sintomi, l’accesso alla soggettività, ed il superamento della posizione dipendente, che, durante la fase simbiotica, fa parte fisiologica del nostro sviluppo evolutivo.

Quindi, i fattori che possono favorire tale perturbazione e tale arresto dello sviluppo sono riscontrabili a vari livelli, quello fisico-biologico, quello psichico, quello relazionale e sociale, in un intreccio di elementi, laddove il piano individuale si interseca con quello familiare, gruppale, istituzionale e comunitario.

L’intervento che abbiamo ritenuto adeguato è pertanto un approccio multidisciplinare e multiprofessionale, volto a limitare certamente i problemi di ordine somatico ed a perseguire un superamento del sintomo, per esempio attraverso i trattamenti farmacologici, ma altresì incentrato sull’attivazione di percorsi psicoterapici che possano favorire la rielaborazione degli accadimenti che hanno determinato il blocco evolutivo.

Per questo motivo, accanto allo strumento del ricovero, per esempio per la disuassefazione, o a quello della prescrizione farmacologia, abbiamo predisposto un dispositivo da utilizzare nella fase ambulatoriale del trattamento, che è quello del gruppo psicoterapeutico, con svolgimento all’interno del campo istituzionale

Il gruppo psicoterapeutico è stato pensato sia per gli utenti portatori del sintomo, sia parallelamente per i familiari di questi utenti, consapevoli che il percorso di cambiamento debba coinvolgere i vari ambiti che pensiamo che siano implicati nel determinare il disturbo, e non solo, quindi, quello individuale.

Tale strumento ci è sembrato adatto a rappresentare, in integrazione con altri trattamenti, un significato di cura alle problematiche presentate da questi individui e da questi gruppi familiari, in quanto attraverso di esso è possibile rielaborare e trasformare le dinamiche che si sono depositate, relative alle relazioni primarie, e che hanno predisposto gli integranti a restare bloccati in una posizione di dipendenza.

Lo strumento del gruppo si avvale della comunicazione fra gli integranti e fra questi ed il coordinatore, ed è proprio attraverso questo mezzo che il gruppo interno che ciascuno porta depositato dentro di sé, ed i vincoli che lo caratterizzano, può essere trasformato, nell’ambito della esperienza del rapporto con gli altri, nel qui ed ora del gruppo attuale. Questa attenzione a strutturare una situazione terapeutica che possa favorire la comunicazione scaturisce dall’idea che certe configurazioni possano cambiare; che ci si possa quanto meno interrogare “sul cambiamento, sugli ostacoli, sugli strumenti per sconfiggere gli stereotipi, e sul progetto” .  

Stiamo propugnando un sistema di interventi che, consapevole dei lunghi tempi che occorre dedicare a questo compito per via delle inevitabili resistenze al cambiamento, crede nella possibilità di superare le cristallizzazioni degli assetti.

E nella possibilità di riconoscere, elaborare e trasformare le stereotipie, che impediscono l’accesso alla soggettività, in modo che si possa imparare a pensare.

Forse sono questi elementi, l’apprendimento a pensare con il proprio pensiero e la capacità di superare le stereotipie, che diventano criteri di salute.

Quanto meno crediamo, e riporto A. Bauleo, nella sua prefazione a “Il processo gruppale” di E. Pichon – Rivière, che “l’obiettivo del gruppo sia segnalare le trappole che la resistenza al cambiamento instaura per impedire di pensarsi diversamente nelle relazioni interpersonali”.

E’ qualcosa di diverso dagli interventi incentrati sul mero superamento o occultamento di un sintomo, che, inevitabilmente, è destinato a trasformarsi in un altro, forse poco collegabile ad un primo sguardo con quello precedente, ma riconoscibile, invece, ad una analisi più attenta, come emergente dalle stesse problematiche di fondo, se non si è almeno tentata una loro rielaborazione. E’ un modo diverso e forse in controtendenza, rispetto alle derive attuali, di intendere la salute, e quindi di operare in suo favore all’interno delle istituzioni.

Il secondo è un prodotto scaturito, tra l’altro, da una analisi sugli esiti di un percorso terapeutico gruppale ed è stato utilizzato per una relazione all’interno di un altro Congresso dedicato alla tematica degli interventi in ambito alcologico, che si è tenuto nel 2011. La riflessione è maggiormente orientata intorno allo studio di sviluppo del dispositivo rappresentato dal Gruppo Operativo Psicoterapico promosso all’interno dell’assetto istituzionale, messo in essere in un’epoca in cui non era ancora stata attivata l’esperienza del gruppo multifamigliare:

 

Dagli assetti istituzionali al gruppo terapeutico

Interventi in ambito alcologico nel Dipartimento Dipendenze Patologiche di Senigallia

(Zona 4 ASUR Marche)

 

Questo intervento vuole perseguire lo scopo di illustrare come il concetto di integrazione, nel settore dei trattamenti inerenti le problematiche alcologiche, è stato tradotto in dimensioni operative nel DDP di Senigallia.

Questo concetto, l’integrazione, richiama un tema, che è quello degli ambiti, che ci sembra importante ridelineare.

Quando parliamo di ambiti, intendiamo orientare la osservazione della realtà configurandola come se fosse strutturata in campi.

Questi campi sono definiti da confini che possono essere pensati netti ed impermeabili, oppure flessibili e percorribili, attraversabili, tanto da poter pensare che quello che si svolge all’interno di ciascuno di essi entri in costante dialogo e relazione vicendevoli, fino a produrre un unico ultimo effetto strutturale di dimensioni globali.

Nella nostra impostazione concettuale e poi operativa, gli ambiti sono pensati in questo secondo modo, e questo modo di pensarli definisce il nostro lavoro.

A partire da come inquadriamo il problema della dipendenza, per passare a come definiamo la diagnosi di questa specifica sofferenza, fino alla costruzione delle dimensioni trattamentali, senza dimenticare la dimensione e l’organizzazione del presidio a cui apparteniamo, pensiamo i vari ambiti identificabili in questo processo come in costante dialogo reciproco, interagenti fino a configurare un unico quadro complessivo, una intera figura finale.

L’integrazione di cui parliamo è quindi proprio questo processo, per cui gli appartenenti ad ambiti tra loro inizialmente distinti o distinguibili concorrono a creare un quadro ed un effetto di sintesi, nel quale le differenti provenienze convergono e costruiscono una unica complessa realtà operativa.

Questo paradigma, nel nostro modo di pensare, è applicato a partire da ciò che pensiamo che sia una   condizione di dipendenza patologica, e nella fattispecie, quindi, anche una dipendenza da etile.

Al di là della specifica sostanza o situazione da cui un soggetto può patologicamente dipendere, noi abbiamo condiviso il concetto che la sofferenza presentata da un individuo con questo tipo di problema è l’effetto di una serie di eventi che riguardano sì il suo ambito individuale, ma anche gli ambiti familiare, gruppale, istituzionale e collettivo o comunitario.

Come dire che una serie di processi che attraversano tutti questi ambiti si sono “integrati” fino a manifestarsi con l’emergenza di una situazione di dipendenza patologica espressa da quel singolo soggetto.

Questo concetto di integrazione torna anche nel momento in cui definiamo la dipendenza, e quindi anche la dipendenza da etile, come la risultanza multifattoriale dell’intervento di fattori biologici, psichici, relazionali e sociali, che insieme concorrono per la definizione del quadro di sofferenza finale.

Ci sembra importante richiamare questo pensiero sulla dipendenza, perché si delinea come una modalità di inquadrare la questione in controtendenza rispetto ad alcuni punti di vista molto in auge che descrivono invece questo stato patologico come l’effetto di alterazioni biologiche e neurochimiche determinate geneticamente, e quindi ascrivibili al mero ambito individuale del soggetto; questi  punti di vista sembrerebbero, pertanto, non lasciare molto spazio  a possibilità plausibili di cambiamento, e adombrano l’ipotesi che l’intervento terapeutico debba essere unimodale, ed impostato quindi anch’esso su basi esclusivamente chimico – biologiche.

Pensando invece la dipendenza in termini integrati, o secondo l’ottica di una epistemologia convergente, il Dipartimento Dipendenze Patologiche di Senigallia si è configurato sulla base di una integrazione, appunto, multiprofessionale, transdiciplinare e interistituzionale.

La normativa prodotta dalla Regione Marche ha definito i Dipartimenti Dipendenze, che devono assumere in carico anche le situazioni di dipendenza da etile, come quei presidi in cui devono operare congiuntamente operatori di professionalità e discipline differenti, in cui devono essere prese in esame le determinanti e le soluzioni sanitarie e sociali, in cui devono convergere per una operatività comune gli operatori  appartenenti sia  ad istituzioni pubbliche che appartenenti al privato sociale, e nei quali si deve  articolare una costante interazione con Istituzioni di ordine diverso da quello Zonale o sanitario, ma che possono essere a vario titolo implicate nella gestione delle problematiche inerenti la dipendenza patologica o le condotte d’abuso.

Stiamo quindi ora parlando del concetto di integrazione applicato questa volta alla dimensione organizzativa ed operativa del Servizio.

All’interno del DDP la multidisciplinarietà,, la multiprofessionalità e la interistituzionalità  convergono, fin dal momento della formazione che si svolge in  comune, passando per i programmi di prevenzione, per  i momenti poi  della prima accoglienza, della elaborazione degli aspetti diagnostici, e della predisposizione dei protocolli trattamentali individualizzati, convergono, dicevamo, nel punto della effettuazione di progetti di cura che integrano varie possibilità di intervento, di ordine medico – biologico ed infermieristico, psicologico e psicoterapico, e di ordine sociale ed assistenziale.

Tali progetti di cura assumono l’aspetto di interventi che, come si può evincere da quanto più sopra definito, si rivolgono non solo al soggetto che giunge al Servizio presentando il suo problema franco di dipendenza, ma anche agli ambiti con i quali egli è in relazione, in modo specifico l’ambito familiare e quello gruppale.

I programmi multidisciplinari pensati ed eseguibili per le situazioni di dipendenza patologica da etile possono articolarsi secondo le opportunità rappresentate all’interno di una filiera, che è stata costruita nel tempo attraverso l’opera di collegamento, dialogo ed interazione tra la Zona, con i suoi presidi, ed altre realtà presenti sul territorio zonale e regionale.

Tale filiera permette di  spaziare dal protocollo ambulatoriale, al momento del ricovero in clinica o in reparto, al momento dell’invio a strutture semiresidenziali o residenziali ed infine al momento riabilitativo; entrando nel dettaglio, questo ventaglio di opportunità terapeutiche è messo in essere grazie alla esecuzione diretta all’interno della dimensione Dipartimentale, alla quale appartengono, come già detto, anche le realtà del Privato Sociale, attive su questo territorio per l’esecuzione di programmi inerenti le dipendenze patologiche, e anche  per via della interazione con istituzioni sanitarie appartenenti al sistema del Privato convenzionato, tra le quali, in questo specifico settore, svolge un ruolo centrale la Casa di Cura Villa Silvia: gli eventuali momenti del ricovero in regime di degenza per la disintossicazione o per la disuassefazione da etile, laddove ad una valutazione congiunta si considerino necessari, sono svolti infatti, nell’ambito del più vasto programma complessivo elaborato in accordo con il Servizio, o presso il reparto di Neurologia della Zona 4, o presso la Casa di Cura medesima, che predispone questa risorsa in virtù di una specifica convenzione con la stessa Zona. 

Sempre per restare nell’ambito della discussione intorno al tema della integrazione, ci è sembrato interessante riportare la descrizione ed il resoconto sul funzionamento di un dispositivo che è stato costruito nel  nostro Dipartimento e che  appartiene al  modulo trattamentale ambulatoriale, che fa parte   del  possibile programma terapeutico integrato ed individualizzato rivolto agli utenti affetti da dipendenza o abuso di etile, e che è reso possibile per la interazione di professionisti con competenze psicoterapiche  appartenenti, in questo specifico caso, in parte al Servizio Pubblico ed in parte al settore del Privato Sociale.

Questo dispositivo è rappresentato da percorsi di psicoterapia gruppale strutturati ed eseguiti secondo i termini ed il modello teorico della Concezione Operativa di Gruppo.

Un percorso è destinato agli utenti in fase di trattamento integrato ambulatoriale, ed un altro, parallelo, è destinato ai loro congiunti; i gruppi sono coordinati ciascuno da una coppia di operatori, e nel caso del gruppo dei congiunti la coppia è composta da un professionista del Servizio Territoriale Dipendenze Patologiche e da   uno del Centro Diurno Semiresidenziale gestito dal Privato Sociale.

Il gruppo degli utenti si svolge presso i locali del STDP, ed il gruppo dei congiunti presso i locali del Centro Semiresidenziale.

Le sedute sono settimanali, hanno la durata di un’ora e mezzo, ed i pazienti che possono avvantaggiarsi di questo tipo di presidio, che affianca altri potenziali interventi, se ritenuti necessari, di carattere medico e farmacologico, sono selezionati dall’équipe degli operatori all’interno del procedimento diagnostico integrato già sopra descritto.

La possibilità terapeutica viene presentata all’utente, che entra effettivamente nel percorso gruppale se aderisce alla proposta che gli viene presentata.

Si prevede, cioè, una libera adesione del paziente al percorso proposto.

Il percorso gruppale può rappresentare in se stesso il trattamento prescelto all’interno di un programma ambulatoriale, ma può anche essere preliminare o successivo ad una fase di ricovero in regime di degenza, o ad una fase di inserimento in Strutture terapeutiche o riabilitative.

Tali processi di gruppo  si pongono come finalità l’elaborazione di quella posizione psichica e relazionale rappresentata dalla dipendenza, senza che si faccia distinzione o si separino gli utenti sulla base della specifica sostanza di abuso con la quale si è strutturato il loro problema, e neanche separandoli sulla base del fatto che alcuni di loro siano in trattamento farmacologico ed altri no;  piuttosto si è tenuto conto del fatto che per tutti i soggetti con un problema di questo tipo, sia che siano dipendenti da etile, da oppiacei , da stimolanti, da relazioni patologiche con farmaci o con oggetti o situazioni ( internet, gioco d’azzardo), la dimensione del gruppo terapeutico può essere il campo all’interno del quale più che in altri si può catalizzare il processo che può restituire loro un senso di appartenenza coniugato con una maggior percezione della loro individualità, differenziazione ed autonomia, fornendo le basi su cui costruire una maggior capacità di progettare rispetto ai percorsi  della propria esistenza .

Ritenendo, come già detto, che la posizione dipendente si strutturi per via di processi che attraversano anche l’intero ambito familiare, si è attivato, come già riferito, un modulo gruppale con setting analogo anche per i congiunti degli utenti designati, e, anche qui, indipendentemente dalla specifica sostanza che compaia nella manifestazione della situazione patologica.

Sono pertanto raggruppati nel dispositivo i congiunti di utenti dipendenti da qualsivoglia sostanza, compreso l’etile, e anche qui, il compito del gruppo è quello di imparare a pensare quali meccanismi possano avere creato le condizioni per cui un membro del loro sistema familiare abbia manifestato la impossibilità di svincolarsi ed autonomizzarsi nel raggiungimento di una percezione sufficientemente buona della propria individualità, manifestando una posizione che lo fa permanere dipendente nel rapporto con sostanze, nei comportamenti o nelle situazioni.

Questa scelta di configurare dei gruppi “misti” nella composizione dei loro integranti, non separati cioè sulla base della specifica sostanza d’abuso, oltre che trovare i suoi fondamenti nella definizione della dipendenza così come è stata riferita, è stata perseguita tenendo conto di altri due fattori.

Uno è l’evidenza che sempre più frequentemente le condotte caratterizzate  da uso tossico di sostanze   e le situazioni di dipendenza si configurano sulla base di quadri di poliabuso, e che spesso si può registrare una alternanza nella scelta delle sostanze, una loro sostituzione nello svolgimento del tempo,  per cui un soggetto potrà presentare momenti in cui si relaziona maggiormente all’etile, ed altri in cui si dà maggiormente agli stimolanti o agli oppiacei; non solo, ma anche bisogna sottolineare come spesso le condotte di abuso alcolico accompagnino con costanza  l’appetizione verso un’altra  sostanza  prevalente: queste evidenze rendono ormai oltremodo difficile, anche se lo si ritenesse opportuno, selezionare con precisione pazienti con un franco, esclusivo e permanente abuso etilico.

L’altro è la consapevolezza teorica ed il riscontro operativo relativamente al dato che la eterogeneità degli integranti di un gruppo favorisce all’interno di quel medesimo gruppo la circolazione della comunicazione, ed evita che i contenuti si fossilizzino introno a tematiche monotone e ricorrenti che farebbero altrimenti troppo strettamente identificare tra loro integranti molto omogenei l’uno rispetto all’altro, rallentando così il processo di differenziazione e discriminazione.

 Questo è vero sia per quanto riguarda i pazienti direttamente colpiti dallo stato di dipendenza, sia per ciò che attiene ai congiunti, ai familiari.

Fa parte della nostra pregressa esperienza aver visto svolgersi intere sedute in gruppi caratterizzati da una elevata omogeneità durante le quali l’unico argomento sul quale costantemente gli integranti ritornavano e si reiteravano era quello relativo all’aspetto che li accomunava, per esempio l’esperienza con la stessa specifica sostanza d’abuso.

L’eterogeneità fa sì che gli integranti possano riconoscere, mano a mano, per via dello svolgersi del processo gruppale terapeutico, che al di là delle differenze che possono presentare rispetto alla scelta delle sostanze o riguardo ai comportamenti che li hanno bloccati nella condizione dipendente, e che si possono vicendevolmente raccontare, esistono  meccanismi più profondi, non immediatamente visibili, inizialmente latenti, intorno ai quali possono imparare a pensare insieme, e che hanno fatto sì che per ciascuno di loro la separazione e l’individuazione siano state fino a quel momento esperienze insopportabili, o l’attaccamento e il senso di appartenenza siano stati impossibili.

Nell’arco dello svolgimento di tali percorsi, abbiamo potuto notare alcuni dati interessanti e che vorremmo condividere per poter effettuare alcune valutazioni.

Il primo è che c’è tendenzialmente, in alcune persone, una sorta di resistenza preliminare ad intraprendere questi processi di gruppo.

 Sembrerebbe questo essere un po’ più vero in linea generale per i congiunti che per gli utenti designati.

Ciò comporta che ci debba essere un adeguato percorso di motivazione che li accompagni infine in questa decisione, l’ingresso nel gruppo, percorso che in genere è sostenuto dall’operatore che fino al momento della proposta di invio al modulo gruppale tratta la situazione individualmente o all’interno di un setting familiare.

A volte tale percorso di motivazione sembra molto problematico, o non sortisce esito positivo, e ci siamo posti il dubbio che forse possa esserci anche una sorta di resistenza latente negli operatori a svincolarsi essi stessi dai pazienti, con i quali avevano stabilito un vincolo individuale.

Un altro dato è che la frequenza dei familiari al gruppo per loro predisposto si è accompagnata ad un maggior indice di ritenzione in trattamento degli utenti “designati” all’interno dei loro specifici dispositivi di cura. E questo aspetto ci è sembrato particolarmente interessante.

Per ciò che riguarda le risultanze relative  al gruppo degli utenti, abbiamo strutturato  una  valutazione  dell’esperienza raccogliendo dati dall’inizio del  2008 fino all’agosto 2010: si è potuto rilevare che su 33 soggetti che hanno beneficiato del presidio 6 sono stati dimessi per programma di cura completato con esito positivo, 4 hanno finalmente elaborato la decisione di fare ingresso in strutture residenziali, 8 sono rimasti ancora in carico, continuando positivamente il programma di cura e manifestando una ferma intenzione di proseguire il trattamento, 13 pazienti hanno effettuato meno di cinque sedute ed hanno interrotto la frequentazione del gruppo, ma sono rimasti in  carico al Servizio e continuando un programma di cura individuale, 1 ha interrotto i rapporti con la Struttura.

E’ stata rilevata una correlazione positiva tra la maggior frequenza al numero delle sedute e la riduzione del sintomo tossicomanico. Durante il processo infatti 12 pazienti sono risultati costantemente negativi alle sostanze testate tramite analisi di laboratorio e 6 hanno ridotto considerevolmente il ricorso alla sostanza primaria d’abuso.

Tutti i pazienti presentavano al momento della selezione per l’avvio della esperienza gruppale un problema di abuso alcolico, per due di questi l’etile era la sostanza di abuso primaria, per gli altri, in vario modo assuntori, era la sostanza d’abuso secondaria.

Ma al di là dell’esito relativo alla sospensione o alla riduzione dell’uso delle sostanze, ci sembra interessante poter valutare altri aspetti che ci possano dare conto della realizzazione del processo nella direzione di un miglioramento delle condizioni degli integranti.

La Concezione Operativa che utilizziamo nello svolgimento del lavoro gruppale prevede che siano individuati dei vettori di valutazione, che ci servono per dare conto ed interpretare il processo realizzato.

Tali vettori sono la comunicazione, l’apprendimento, la appartenenza, la pertinenza, la cooperazione, il clima creato e la acquisizione della possibilità di progettare.

Un altro elemento che valutiamo è il grado di discriminazione raggiunto dagli integranti l’uno rispetto all’altro.

Durante tutto il processo gruppale si manifestano ovviamente delle resistenze al cambiamento, e un altro dei modi che abbiamo per darci conto se il processo gruppale sta funzionando nel senso di promuovere un maggior grado di salute nei suoi integranti è inoltre quello di valutare se le resistenze al cambiamento siano in via di risoluzione o quanto meno di riduzione.

Il processo gruppale è iniziato con una fase caratterizzata da una grande ansietà, dalla impossibilità per gli integranti di sentire che si potevano costruire vincoli tra loro, e dalle resistenze a potersi pensare differenti da come i luoghi comuni e loro stessi si dipingono in quanto tossicodipendenti; inoltre, inizialmente, si poteva osservare una importante negazione degli aspetti emotivi ed affettivi, che venivano sperimentati come intollerabili. 

Nel corso del tempo gli integranti sono passati attraverso una fase intermedia, nella quale l’emotività ha potuto cominciare ad avere accesso, grazie anche al fatto che lentamente ha iniziato a rendersi possibile l’esperienza di costruzione di vincoli più fiduciosi tra loro, ma era questa  ancora una fase nella quale, come  in un percorso a spirale, il gruppo tornava sui medesimi punti di resistenza e di ansia; erano però decisamente migliorate la comunicazione, che ha integrato gli aspetti affettivi, la pertinenza al compito che il gruppo si è dato, e cioè pensare sulla situazione dipendente e sui problemi da questa creati, e l’apprendimento: infatti i partecipanti  hanno cominciano a poter mettere in relazione i sintomi che hanno sviluppato con alcuni aspetti del loro mondo interno e con i depositi degli accadimenti della loro storia.

Nella fase successiva, l’ultima analizzata, i partecipanti hanno sviluppato una maggior capacità di elaborazione in merito al senso dei vincoli, quelli attuali, nel gruppo, messi a confronto con quelli che hanno caratterizzato la loro storia ed il loro precedente vissuto: hanno potuto cominciare a promuovere per se stessi un senso maggiore e meno ansiogeno di appartenenza.

Nell’ultima seduta del ciclo, che si è interrotto per la pausa estiva, e  che è poi ripreso in ottobre  con l’ingresso di integranti nuovi, il processo, che ha contribuito a produrre alcune risoluzioni e le conseguenti dimissioni di alcuni membri, era così delineato: gli integranti esprimevano un maggior senso di emancipazione, discriminazione ed apprendimento, pur conservando la paura di perdere un sostegno che per alcuni di loro, quelli che sarebbero poi rimasti ancora a proseguire il programma, sembrava ancora fortemente necessario; il miglioramento delle condizioni ha permesso di dimettere alcuni di loro, mentre altri sono rimasti in attesa di poter riprendere il lavoro terapeutico.

Sembra insomma di poter formulare la seguente considerazione: il dispositivo del gruppo misto, che è una parte dei complessi costrutti scaturiti dalle pratiche di integrazione transdisciplinare ed interistituzionale, si dimostra uno strumento efficace nel poter accompagnare, insieme ed in interazione con altri aspetti della terapia, gli utenti e le rispettive famiglie nella esplorazione e nella elaborazione della dipendenza: sembra che questo specifico processo gruppale permetta loro finalmente di poter tollerare un po’ di più la individuazione e la differenziazione, migliorando pertanto il livello e la qualità della  dipendenza nei loro sistemi.

 

Spero che i contributi che ho avuto desiderio di condividere oggi, riemersi dalla storia del Servizio e della équipe, possano fungere da un lato da testimonianza di cosa facevamo e come pensavamo e, dall’altro, da elemento di esperienza intorno alle tematiche descritte, forse non così datate, sul quale poter calibrare il pensiero di oggi per rinnovare la operatività.

 

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