I gruppi multifamigliari

di Massimo De Berardinis

Prima parte: da raggruppamento a gruppo

Nella relazione che mi accingo ad esporre mi servirò di nozioni ben conosciute nella loro applicazione alla psicoanalisi dei gruppi e di altre, forse meno note, ma altrettanto utili per addentrarci nella comprensione della complessa fenomenologia clinica dei gruppi multifamigliari. In premessa voglio ricordare che le trasformazioni dell’ambito istituzionale possono esercitare effetti, sugli ambiti famigliari ed individuali, di gran lunga maggiori di quelli che le trasformazioni di questi ultimi possono esercitare sull’ambito istituzionale.

Voglio anche ricordare come la cultura accademica ci abbia ripetutamente proposto l’idea che i soggetti nascano isolati e che solo successivamente si riuniscano a formare dei gruppi; al contrario la Concezione Operativa ci ha dimostrato che l’essere umano, prima di diventare soggetto, “appartiene” ad un gruppo, anzi, nello stato di indiscriminazione, che precede la distinzione io-non io, così come ce lo ha iconicamente descritto Bleger, egli è il gruppo! Nell’ottica blegeriana, pertanto, l’istituzione famigliare costituisce, all’inizio della vita psichica del soggetto ed in maggiore o minore misura, anche nel seguito, il ricettacolo delle parti più immature e meno discriminate dei suoi membri.

E’ altresì opportuno ricordarein premessa che nei gruppi primari tutti i membri tendono a funzionare da depositari per ciascuno degli altri, assumendo ed attuando, in modo complementare, i ruoli depositati. Può perciò accadere che quando questi gruppi attraversano fasi di instabilità, il membro che si è fatto maggiormente carico delle ansie e dei conflitti famigliari, possa veder crollare le proprie difese e divenire il depositario del ruolo di malato (il cosiddetto capro espiatorio).

I gruppi primari che ci vengono inviati per il trattamento multifamigliare presentano tutti, in misura più o meno pronunciata, questo tipo di problematiche. Ora, prima di addentrarmi in altre considerazioni, vorrei presentare brevemente qualche esempio sulle modalità di comportamento che gli integranti di questi gruppi tendono ad assumere in occasione dei primi incontri multifamigliari. Sebbene le famiglie vengano inviate con l’indicazione al trattamento di tutto il gruppo, pur tuttavia, già dal primo incontro di contrattazione, possiamo osservare come i membri, “cosiddetti sani”, tentino sempre una ridefinizione dell’invio cercando di apparire come accompagnatori dei “cosiddetti malati” e si comportino come certi genitori, con figli un po’ turbolenti, nei primi giorni di inserimento alla scuola materna!

Essi parlano di fronte ai loro congiunti come se non ci fossero o non capissero…strizzano l’occhio ai curanti…ammiccano e tentano, in ogni modo, di far intendere che i malati non sono loro ma “quelli lì”.E’ interessante notare come i pazienti accettino passivamente questo ruolo, lasciandosi trattare, senza reagire, come se fossero dei “bimbi un po’ tonti”.

Quando la situazione si presenta, sin dall’inizio, con aspetti così fortemente resistenziali, può essere opportuno evitare inutili contrapposizioni rimandando le famiglie agli invianti per una ridefinizione delle indicazioni di cura. Ma anche quando la fase contrattuale viene conclusa, almeno sul piano manifesto, con la definizione del compito di lavorare sulle difficoltà che, a vario titolo, tutti i membri delle famiglie si trovano ad affrontare in quella fase della loro vita, la situazione resistenziale tende ugualmente a riproporsi seppur con caratteristiche diverse.

Inizialmente le famiglie si dispongono in cerchio, senza mescolarsi, anche se poi ciascun gruppo tende rapidamente a scindersi in due sottogruppi: quello dei sani e quello dei malati.Solitamente i primi a prendere la parola sono i cosiddetti membri sani attraverso la descrizione delle “mancanze” di cui si renderebbero “colpevoli” i cosiddetti membri malati; essi parlano degli sforzi compiuti, delle terapie inutilmente tentate, del sentimento di impotenza che li attanaglia… per poi concludere con la richiesta rituale, di “fare qualcosa per guarirli”!

Dopo queste “presentazioni” iniziali, la“geografia”del gruppo va incontro a dei rimaneggiamenti caratterizzati dai movimenti dei membri sani che, spinti da un bisogno di “solidarietà”, si spostano per costituire piccoli sottogruppi, di due, tre persone, molto attivi nel dimostrarsi comprensione affettiva; i malati, invece, tendono arestare ancorati ai loro posti, accanto alle figure famigliari maggiormente protettive.Spesso si assiste anche al fatto che i fratelli e le sorelle dei “pazienti designati”, diano vita ad un ulteriore sottogruppo, spazialmente disperso, ma riconoscibile per la comunanza del tono polemico e rivendicativo verso il Servizio di Salute Mentale, il Servizio Sanitario, il Governo… il mondo intero… considerati “responsabili”di non aver fatto e di non fare abbastanza per i loro congiunti.

Per un tempo di durata variabile la dinamica del gruppo si mantiene incentrata sulla scissione tra sani e malati ed ogni momento “è buono”perchè i membri sani tornino a stigmatizzare il comportamento dei malati “… Il mio fa così Anche il suo?… Pensi che una volta… Sapesse… Ma no!… Davvero?… Proprio come il mio!… Dottore… Come si può fare?”… E via di questo passo!!

Il sottogruppo “depositato”, quello dei pazienti, solitamente resta silenzioso, lascia dire,al più, attraverso l’esibizione di marcati sintomi psicopatologici, provvede, paradossalmente, a confermare la divisione tra sani e malati. Quello che ho appena descritto è solo uno dei possibili esempi di come gli integranti del gruppo, del tutto inconsapevolmente, si adoperino per restare in fase di pre-compito, cioè oppongano “resistenza” all’ingresso nella fase di compito… in questo caso…. aggrappandosi ognuno ai propri “ruoli storici”!

In queste circostanze la funzione del coordinatore sarà essenzialmente rivolta a rinforzare il setting e a segnalare ed interpretare le ansie di base che si frappongono all’ingresso del gruppo nella fase di compito. La fase di pre-compito tenderà a ripresentarsi tutte le volte che il gruppo si troverà di fronte ad un cambiamento; se la coordinazione riuscirà a non cedere né alle lusinghe collusive dei sani né alle richieste di dipendenza dei malati, il gruppo si avvierà nel difficile percorso di cura che, si auspica, possa favorire la crescita di ciascuno dei suoi membri. Tutti i gruppi, come dice Pichon Rivière, hanno un andamento pendolare, a spirale, che li porta ad oscillare tra le fasi di pre-compito e quelle di compito. Il pre-compito è, per eccellenza, il momento nel quale emergono maggiormente le resistenze al cambiamento; è la fase nella quale il gruppo tenta di affrontare problemi nuovi con modalità vecchie.

L’emergere delle angoscie di base, propriamente paranoidi, depressive e confusionali, mobilitate dai timori di perdita dei vecchi riferimenti e dalla minacciosità del nuovo, determina la comparsa di tecniche di difesa che hanno lo scopo di eludere le ansie e rinviare il compito, come, per esempio, abbiamo potuto vedere nell’esempio citato, quando tutti gli integranti resistono al nuovo, attraverso il mantenimento dei loro vecchi ruoli di sani e di malati. E’ fondamentale che, in questi frangenti, il coordinatore non faccia propria la difficoltà del gruppo ricorrendo alla rassicurazione, cioè non confonda il proprio compito con quello del gruppo, perché se così facesse finirebbe col trasformare il lavoro terapeutico in lavoro di supporto. Ma che differenza c’è tra i gruppi multifamigliari e gli altri tipi di gruppo?

– Nella terapia, cosiddetta individuale, la relazione terapeutica è caratterizzata dall’incontro tra due corpi fisici ed dall’irrompere, nello spazio terapeutico, di molteplici “personaggi” che popolano il gruppo interno del paziente e il gruppo interno del terapeuta. In questo “particolare tipo di gruppo” l’analisi del transfert e del controtransfert costituisce l’asse portante del lavoro terapeutico.

– Nei gruppi operativi (gruppi secondari, dove sono i soggetti a costituire il gruppo) i corpi fisici sono numerosi ed ancor di più i personaggi dei gruppi interni che affollano le sedute. Qui l’analisi del transfert individuale è subordinato all’analisi della relazione gruppo –compito. I processi di proiezione-introiezione e di aggiudicazione-accettazione orifiuto dei ruoli costituiscono il “moltiplicatore terapeutico” grazie al quale è possibile addivenire, a livello individuale, alla ridefinizione dei modelli relazionali primari internalizzati.

– Nella terapia dei gruppi famigliari (cioè dei gruppi primari, dove è il gruppo a costituire i soggetti e non viceversa) occorre innanzitutto tener presente che il paziente è il portavoce, l’emergente della malattia famigliare;pertanto il trattamento sarà primariamente rivolto alla rottura dello stereotipo dell’aggiudicazione e dell’assunzione del “ruolo di malato”; quindi si procederà alla individuazione ed all’elaborazione del nucleo depressivo di base; è da questo, infatti, che discendono tutte le strutturazioni patologiche che rivelano il fallimento dei tentativi messi in atto per elaborarlo.
Infine ci si occuperà della prevenzione del ripetersi dello stato di malattia famigliare, favorendo il riadattamento delle strutture individuali e gruppali.

– I cosiddetti gruppi multifamigliari, di cui ci occupiamo in questarelazione, sono invece costituiti da un insieme di sottogruppi strutturati (ma non qualsiasi, poiché si tratta di gruppi primari) che da vita ad una realtà molto particolare, che potrebbe essere definita di “oscillazione dinamica”tra la possibilità di trasformarsi in un gruppo di individui, discriminati e differenziati, e quella di restare un “raggruppamento di gruppi primari”.

Già sappiamo che la struttura istituzionale dei gruppi primari svolge la funzione di contenere, accogliere e bloccare le parti indiscriminate della personalità dei suoi membri e che ogni modifica di questa struttura può liberare l’angoscia in essa depositata; sappiamo anche che in assenza di un’idonea elaborazione l’angoscia può prendere la via del sintomo. Eppure la nostra aspettativa di cura è proprio quella di vedere modificata la stereotipia dei vincoli famigliari; che cioè il lavoro terapeutico possa determinare un allentamento della fissità degli “istituiti famigliari”a vantaggio di nuovi possibili “istituenti”.Come possiamo adoperarci, allora, affinchè l’attivazione, non occasionale, della potente macchina istituzionale produca trasformazioni senza determinare dei “terremoti catastrofici” negli integranti del gruppo?

Nella mia esperienza ho potuto constatare che per favorire il conseguimento di questo obiettivo occorre che si produca un “travaso”, al gruppo multifamigliare, della funzione istituzionale inizialmente assolta dai gruppi primari; perché questa operazione si realizzi è necessario che il gruppo multifamigliare assuma “carattere istituzionale”, cosa che può avvenire tramite l’adozione ed il mantenimento di un setting definito.

La dimostrazione dell’avvenuto travaso si renderà evidente, alla coordinazione, attraverso il rilievo di un aumento dei tentativi, operati dai singoli integranti, di prendere distanza dai gruppi primari, alla ricerca di una maggiore autonomia. Per altroverso il favorevole ingresso nella fase di compito, reso possibile dal setting e dal lavoro interpretativo della coordinazione, verrà segnalato dal manifestarsi di una posizione depressiva legata alla percezione della perdita della dipendenza dal gruppofamigliare, ma anche da un’attenuazione della posizione paranoidea di fronte alla minacciosità del nuovo. Da questo momento in avanti il compito del gruppo sarà quello di affrontare ed elaborare le ansie derivanti dalla rottura dello stereotipo, dalla trasformazione dei vincoli con i gruppi primari, dal procedere dall’indiscriminazione verso la discriminazione… in breve, dal passaggio da “raggruppamento di gruppi” a “gruppo di integranti”.

Nel lavoro di segnalazione e di interpretazione, che entrerà in gioco ogni qualvolta si profilerà un ostacolo sulla strada verso il conseguimento del compito, sarà posta una particolare attenzione a due aspetti fondamentali:

– al già ricordato va e vieni da raggruppamento a gruppo e viceversa (oscillazioni pre-compito -compito).

– ai fenomeni transferali che interessano la coordinazione, gli integranti, il compito e l’extragruppo.

Se del primo punto ho già parlato, il secondo merita ancora qualche approfondimento.

Partendo dalla teoria delle relazioni oggettuali vediamo come queste relazioni, una volta interiorizzate, vengano poi organizzate (a seconda delle modalità conle quali le sperimenta emozionalmente l’io del soggetto in via di sviluppo) in forma di rappresentazioni del mondo esterno. Queste rappresentazioni non riproducono mai il mondo dei rapporti reali (non sono cioè una copia fedele del mondo esterno) nonostante che nel corso degli anni, sotto l’effetto dell’evoluzione dell’io e delle successive relazioni oggettuali, esse vengano ripetutamente rimaneggiate nella direzione di una maggiore approssimazione alla realtà.

Diversamente dalla teoria delle relazioni oggettuali che si occupa delle vicissitudini degli oggetti internalizzati, la teoria del vincolo, elaborata da Pichon Rivière (che si fonda sull’idea il soggetto si produce in una prassi relazionale e che non c’è nulla in lui che non sia il risultato dellainterazione tra individuo, gruppo e società), si occupa sia del vincolo interno con l’immagine dell’oggetto che del vincolo esterno con l’oggetto reale.

Il vincolo interno, cioè la forma con la quale l’io si pone in relazione con la rappresentazione dell’oggetto internalizzato, condiziona anche l’espressività esterna; ne discende che, secondo questo modello, la terapia psicoanalitica si configura a partire dal tipo di relazione che il paziente stabilisce con il terapeuta; infatti, la natura transferenziale di questa relazione permette di indagare il vincolo che il paziente ha con i suoi oggetti interni. Pichon Rivière dice che l’esperienza terapeutica implica il “confronto”, cioè che nella misura in cui il paziente, a seconda dei vincoli internalizzati, assegnerà al terapeuta diversi ruoli, si renderà manifesta la sua “distorsione”nella lettura della realtà.

E’ di fondamentale importanza, sul piano terapeutico, che i ruoli assegnati non vengano agiti bensì “ritradotti”(interpretati) in una concettualizzazione o ipotesi sull’accaduto inconscio del paziente, al fine di cooperare, con lui, alla modifica delle sue percezioni del mondo e nella ricerca di nuove forme di adattamento attivo alla realtà. Nel lavoro di gruppo l’azione interpretativa esplicita gli emergenti espressi tramite il portavoce (verticalità), in rapporto con tutti i membri (orizzontalità), nel qui ed ora con il coordinatore, in relazione al compito.

Nei gruppi multifamigliari, come nei gruppi operativi, a seguito dei transfers multipli che comportano processi di aggiudicazione e di accettazione o rifiuto di ruoli, questa funzione interpretativa (di confronto) non viene svolta solamente dal coordinatore, ma anche da tutto il gruppo, con aumento esponenziale delle potenzialità terapeutiche.

 

Seconda parte: gruppi terapeutici e gruppi di supporto

Purtroppo, nelle nostre realtà, le psicoterapie multifamigliari sono quasi del tutto sconosciute e pertanto non vi sono richieste spontanee da parte di pazienti o famigliari. Questo significa che i Servizi devono promuovere un’offerta che favorisca l’emergere di una domanda di cura orientata in questa direzione. Per questi motivi, nella mia pratica, ho fatto ricorso all’invito di sei, sette famiglie alla volta, con la finalità manifesta di discutere delle proposte terapeutiche del Servizio e, specificatamente, della proposta di terapia multifamigliare; ovviamente stiamo parlando di famiglie che hanno uno o più membri incura al Servizio di Salute Mentale.

Il percorso consta di tre incontri, a cadenza ravvicinata (solitamente ogni settimana o quindici giorni), della durata di due ore ciascuno. Al primo incontro vengono esposti i temi oggetto di discussione ed il coordinatore, coadiuvato da uno o due osservatori “silenziosi”, presenta la coordinazione e definisce il setting di lavoro. Questo consente di caratterizzare il pur breve percorso sia come momento informativo che come momento esperienziale.

Solitamente, già da questi primi incontri, si può notare che i famigliari tendono a presentarsi come “…noi siamo i genitori di Tizio,…io sono la moglie di Caio, …noi siamo le figlie di Sempronio…” dove Tizio, Caio e Sempronio, ovviamente, sono i pazienti… Gli integranti, cioè, non si presentano come se stessi bensì “in funzione”del gruppo famigliare di appartenenza e del rapporto che hanno con il “paziente designato”, lasciando intravvedere, già da subito, quella tramatura vincolare che caratterizza i gruppi primari e che sarà oggetto del lavoro terapeutico multifamigliare. Al termine dei tre incontri le famiglie interessate possono “iscriversi”per la partecipazione ad un percorso psicoterapeutico multifamigliare.

L’altra maniera in cui è possibile costituire gruppi multifamigliari è rappresentata dall’invio di famiglie da parte degli operatori dei Servizi. Ma in questo caso come vengono scelte le famiglie?

Nei Servizi dove io ho lavorato i candidati al trattamento multifamigliare sono rappresentati soprattutto da quei gruppi famigliari i cui congiunti sono pazienti che “non migliorano”, che “deludono” ed “esasperano” i terapeuti… non di rado inducendo in essi inconsapevoli agiti controtransferali. Così, come spesso accade nelle istituzioni sanitarie, “il nuovo trattamento”non viene riservato ai casi che potrebbero giovarsene maggiormente, bensì ai casi nei quali è già stato provato di tutto… ma senza alcun risultato!

Sono possibili due tipi di invio: il primo è caratterizzato da una presa in cura “a tutto tondo”, che include anche il trattamento psicofarmacologico; il secondo prevede invece che il paziente mantenga uno spazio terapeutico individuale (quasi sempre di natura psicofarmacologica) parallelo all’iter multifamigliare.

Con queste famiglie (invitate e/o inviate) si costituiscono dei raggruppamenti di venti, venticinque membri che vengono poi convocati per la definizione del contratto terapeutico. La fase di contrattazione può richiedere uno o più incontri e serve a definire il setting di lavoro.

Spazio-tempo: il luogo ove si terranno gli incontri, con quale durata (solitamente due ore), con quale cadenza (settimanale o quindicinale) e per quanto tempo (solitamente un anno e mezzo o due).

Ruoli: presentazione della coordinazione (solitamente due, tre operatori con ruoli definiti di coordinatore, co-coordinatore, osservatore) e degli integranti del gruppo.

Compito: variamente articolato ma sostanzialmente incentrato sul miglioramento dello stato di benessere di tutti i membri del gruppo.

E’ importante sottolineare come il contratto terapeutico venga stipulato in gruppo, con ciascuno degli integranti e non con le “entità” famigliari. I gruppi così costituiti tendono ad assumere rapidamente una configurazione simile a quella di un risuonatore, che riverbera, a volte in maniera quasi “contundente”, transfers, controtransfers, introiezioni e proiezioni multiple. In questo “spazio”, assai particolare, con l’aiuto del coordinatore, il gruppo muove i suoi primi passi partendo dalla situazione presente (perché siete qui?)… per dirigersi verso il passato (che cosa vi è successo?)… e da qui verso il futuro (cosa pensate di fare per affrontare le vostre problematiche?)… poi di nuovo al presente… di nuovo al passato… di nuovo al futuro… In questo andare e venire il gruppo “racconta” le sue storie dove gli integranti “agiscono” ripetitivamente i loro ruoli famigliari… ruoli stereotipati…surrogati d’identità… connaturati alla struttura istituzionale dei gruppi primari.

Con il procedere degli incontri le strutture famigliari, inizialmente rigide e chiuse, iniziano a farsi un po’ più flessibili, permeabili e a rimodellarsi. Come in una grande rappresentazione teatrale, il gruppo mette in scena sé stesso… gli attori (pazienti, famigliari e terapeuti) inizialmente incarnano il passato… dopo un pò si accostano al presente e infine… lentamente… si aprono al futuro; … stereotipia dei vincoli e possibilità di cambiamento coesistono ed interagiscono dinamicamente tra loro per tutta la durata del gruppo dando vita, per tutti, ad un processo di possibile trasformazione terapeutica.

Nell’approfondire ora la riflessione sul funzionamento dei gruppi multifamigliari torniamo sulla dimensione istituzionale; questi gruppi sono infatti caratterizzati dalla specificità di essere spazi di coesistenza ed interazione tra diverse strutturazioni istituzionali:

– Quella dei gruppi primari (le famiglie) che si esprime attraverso una vera e propria “drammatizzazione vivente” dei vincoli istituzionali storicamente determinati.

– Quella dei gruppi interni (individuali) espressa, da parte di ciascun membro del gruppo famigliare, tramite “l’attualizzazione transferale delmodello primario internalizzato”.

– Quella del gruppo multifamigliare, “gruppo di gruppi”, nuovo contenitore delle parti immature della personalità di tutti gli integranti; qui chiamato ad esprimere, tramite il setting, la condizione dell’invarianza o non processo,necessaria per consentire lo svolgersi del processo terapeutico.

A questi tre livelli ne andrebbe aggiunto almeno un quarto, costituito dalla istituzione sanitaria, che però, in questa occasione, lasceremo da parte per non appesantire troppo la trattazione. Dalla interazione tra le strutture che abbiamo descritto prenderanno avvio delle linee processuali che potranno convergere in maniera terapeuticamente sinergica oppure no. Nella mia esperienza ho potuto verificare che all’andamento di questi processi non risulta per nulla estraneo il tipo di approccio metodologico e tecnico tenuto dalla coordinazione.

Fornisco alcune brevi esemplificazioni in merito. Se il sig. Tizio, padre del paziente Caio, si relaziona, all’interno del gruppo multifamigliare, in maniera prevalente od esclusiva, in funzione di questo suo ruolo paterno che noi accettiamo ed avalliamo lavorando con questo “status”, di fatto stiamo lavorando con la struttura dei gruppi primari (vincolo esterno) e non con il gruppo multifamigliare. Diversamente, se la nostra attenzione sarà rivolta, in modo prevalente o esclusivo, all’analisi delle manifestazioni di transfer espresse da ciascun integrante, questo ci porterà a lavorare essenzialmente con la struttura dei gruppi interni (vincolo interno) dei singoli integranti (come se si trattasse di una specie di “terapia rotatoria individuale” in gruppo) e non con il gruppo multifamigliare.

Se invece ci approcceremo al gruppo multifamigliare ponendo come “tra parentesi” la struttura dei gruppi famigliari e quella dei gruppi interni individuali, ma focalizzando la nostra attenzione soprattutto sulla relazione gruppo-compito (cioè nell’aiutare gli integranti ad affrontare gli ostacoli che si frappongono al conseguimento del compito), il nostro lavoro favorirà, da subito, il processo di trasformazione da raggruppamento a gruppo, cioè il passaggio dalla fase di pre-compito a quella di compito; questo eserciterà un effetto trasformativo contemporaneo e sinergico anche sulle strutture dei gruppi famigliari e dei gruppi interni individuali. Poiché però queste considerazioni si fondano direttamente sulle mie esperienze cliniche, occorre che vi faccia un breve riferimento.

Devo ritornare a molti anni addietro, più di trenta, aquando iniziai a riportare a livello ambulatoriale le mie esperienze sui gruppi multifamigliari; esperienze maturate soprattutto in situazioni di acuzie, cioè con le famiglie di pazienti ricoverati nella Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena. In quella fase il mio stile di coordinazione, si direbbe meglio di conduzione, era, per così dire, molto “sperimentale”; ciò non di meno le cose procedevano, almeno inizialmente, in modo assai positivo e tutti gli integranti sembravano trarre significativi giovamenti dall’esperienza… cosa che ritardò non poco la mia comprensione dei fenomeni che avvenivano all’interno dei gruppi multifamigliari…

I problemi cominciarono ad evidenziarsi solo più tardi… all’avvicinarsi del momento della chiusura dei gruppi. Accadeva infatti che, con l’approssimarsi della fine dei contratti terapeutici, le strutturazioni istituzionali originarie (interne ed esterne) riprendessero il sopravvento. I pazienti regredivano in maniera esageratamente vistosa, riassumendo le modalità relazionali e sintomatiche precedenti all’ingresso nel gruppo…. Sembrava di assistere al riavvolgimento del nastro di una pellicola! La situazione era paradossale… il lavoro con i gruppi multifamigliari produceva miglioramenti rapidi ed evidenti… ma, per mantenerli, sembrava che i gruppi non dovessero terminare mai…

Feci altri tentativi con esiti incerti… finchè la riflessione clinica e soprattutto la formazione nella Concezione Operativa di Gruppo non mi fornirono gli strumenti per superare quella situazione di “gruppo-protesi”, che, tra l’altro, per la sua sussistenza, si avvaleva proprio del mio “supporto” involontario. Al fine di fornire una migliore comprensione dei fenomeni sopra riportati, descriverò di seguito alcuni degli errori cheavevano maggiormente contribuito a determinarli:

– Concentravo la mia attenzione quasi esclusivamente sul funzionamento dei singoli integranti e dei gruppi famigliari.

– Pensavo i componenti del gruppo soprattutto a partire dal ruolo che rivestivano all’interno di ciascuna famiglia.

– Sottovalutavo l’importanza della definizione del setting.

– Tendevo a sovrapporre il ruolo di coordinatore con quello di leader.

– Ricorrevo, nei momenti di difficoltà del gruppo, ad interventi di natura prevalentemente rassicuratoria.

– Non differenziavo a sufficienza il compito della coordinazione da quello del gruppo.

Preso nel ruolo di “leader buono, potente, e salvifico”, incentivavo la dipendenza sulla mia persona e sul gruppo, senza però riuscire poi a favorirne l’elaborazione. Il clima così generato facilitava l’emergere di fenomeni catartici che sembravano soddisfare, nell’immediato, le esigenze dei partecipanti, ma poi non evolvevano in cambiamenti duraturi. In questo modo il gruppo diveniva un luogo di attenuazione delle ansie, ma, contemporaneamente, anche di rinforzo delle stereotipie di funzionamento famigliare ed individuale. Di fatto, favorendo la stabilizzazione dei gruppi in “fase di pre-compito”, mi ero inconsapevolmente trasformato, come dice Pichon-Rivière, nel “leader della resistenza invece che del cambiamento”.

Questa condizione di “certo benessere”, conseguita dal gruppo, per potersi mantenere nel tempo necessitava, però, della persistenza di una gruppalità di tipo supportivo; naturale quindi che l’approssimarsi della chiusura del gruppo mettesse in discussione quell’equilibrio facendo “retrocedere” gli integranti allo “statu quo ante”.

 

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