Dispositivi gruppali e trasformazioni istituzionali in un reparto psichiatrico ospedaliero

di Massimo De Berardinis

 “Nella vita psichica individuale l’altro è regolarmente presente come modello, come oggetto, come amico o avversario e in questo modo la psicologia individuale è allo stesso tempo e fin dall’inizio, psicologia sociale, in senso lato, ma pienamente giustificato”

S.Freud: psicologia delle masse ed analisi dell’io, 1921

 

Quando iniziai il mio percorso di formazione specialistica alla Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena … correva l’anno… 1977.

Il Reparto femminile, cui ero stato assegnato, contava su una dotazione ufficiale di 19 posti letto che, di fatto, a causa delle numerosissime richieste di ricovero, non scendeva mai al di sotto dei 25 letti, con momenti di sovraffollamento in cui si superavano anche i 30 posti letto.

Le degenti, tutte rigidamente in vestaglia, trascorrevano la maggior parte del tempo nelle loro stanze, a letto; l’alternativa allo stare in camera era rappresentata dal camminare avanti e indietro per il lungo corridoio.

Le infermiere se ne stavano in guardiola a fare le loro cose, come dicevano le ricoverate, oppure agivano una stereotipata ritualità di atti quotidiani (sveglia, distribuzione delle terapie, carrello della colazione, ecc., ecc.) che si ripetevano sempre uguali; quando entravano in contatto con le pazienti lo facevano attraverso l’assunzione di un petulante “ruolo genitoriale, inappropriatamente “infantilizzante”.

 “… vieni qui da me Paolina, vieni …”, “…mangia Paolina … mangia … lo sai che ti fa bene …”; era la loro maniera di “accudire” le ricoverate; non conoscevano altri modi ma erano in buona fede e le pazienti sembravano capirlo.

I medici, dal canto loro, erano sempre “di corsa”; attraversavano veloci il corridoio tagliando con sapiente perizia la folla delle “questuanti”: “… dottore… dottore… mi ascolti dottore …”, sino a raggiungere gli ambulatori cui le pazienti potevano accedere solo su chiamata ed accompagnate dalle infermiere.

Le stesse infermiere venivano chiamate con un campanello che trillava direttamente nella “guardiola”.

Dopo tempi imprevedibili il campanello cessava di suonare ed i medici “riemergevano” dagli ambulatori per sparire definitivamente, in fondo al corridoio, al di là della porta che separava il Reparto dal “mondo di fuori”.

In quest’atmosfera spersonalizzata e regressiva, il tempo scorreva con una tranquillità innaturale, interrotta, ogni tanto, solo da urla improvvise, sbattimenti di porte e veloci tramestii di passi; poi… tutto tornava come prima, come se nulla fosse accaduto.

Le pazienti, che vivevano in questo stato di “sospensione”, sembravano aver trovato “nell’aspettare” il senso del loro stare in Reparto: aspettavano che arrivasse il carrello dei pasti; aspettavano di fumare le sigarette che le infermiere concedevano loro… una alla volta; aspettavano la visita dei famigliari; aspettavano in fila per andare in bagno; aspettavano la somministrazione delle terapie… ma soprattutto… aspettavano di essere chiamate dal medico per “il colloquio”… il mitico colloquio!

In Clinica, infatti, i medici, non senza una punta di orgoglio, avevano da tempo abbandonato il classico “giro” al letto delle malate per sostituirlo con momenti di colloquio.

Al tempo i colloqui erano fondamentalmente di due tipi: uno era il colloquio con i famigliari, al quale le ricoverate erano ammesse solo alla fine per essere informate, “in modo semplice”, delle decisioni che erano state prese sul loro conto; l’altro era quello con le pazienti ed era soprattutto orientato ad una valutazione medico comportamentale: dorme, non dorme, mangia, va di corpo, delira, è allucinata, è aggressiva, rifiuta le terapie, ecc., ecc.

Ora qui sarebbe lungo addentrarsi nel dettaglio delle vicende che, a partire da questa realtà, consentirono la progressiva trasformazione del Reparto, per cui citerò solo alcuni dei passaggi, per me più significativi, di quel percorso.

Il primo elemento di cambiamento, preliminare a tutto il seguito, consistette nell’adibire una grande stanza ad otto letti a sala da pranzo e di intrattenimento; questo cambiamento, apparentemente banale, fu quello che permise i miei primi avvicinamenti alla vita delle ricoverate.

Era solitamente di pomeriggio, sotto lo sguardo un po’ contrariato (perché “turbava” la routine del Reparto) ma insieme anche curioso delle infermiere, che cominciai a prendere l’abitudine di mettermi a sedere ad un tavolo della nuova sala; me ne stavo lì, guardandomi intorno, finchè qualche paziente, con fare un po’ incerto, si avvicinava, si sedeva e cominciava a parlarmi; poi se ne avvicinava un’altra e un’altra ancora, così, piano piano, si formava un gruppetto “di chiacchiera”. Il giorno successivo la scena si ripeteva ed il gruppo si ricomponeva… gli argomenti erano quelli della quotidianità, i figli, i problemi di lavoro… i soldi… ecc., ed io… “nuovo del mestiere”… restavo colpito da questi momenti in cui le pazienti “quasi non sembravano pazienti”, come invece avveniva negli altri momenti di incontro “ufficiale” con il medico.

Il secondo elemento di cambiamento riguardò la trasformazione dello spazio mattutino delle cosiddette “consegne”; uno spazio che noi specializzandi avevamo ribattezzato dispregiativamente “riunione cacca e piscio” perché essenzialmente deputato ad acquisire informazioni, tramite le infermiere, sull’andamento di queste funzioni corporali e sugli aspetti più grossolanamente comportamentali delle ricoverate: ha dormito, non ha dormito, è andata di corpo, non è andata di corpo, ha preso le medicine, non ha preso le medicine…

L’aspirazione del nostro gruppo era invece quello di dare vita ad una riunione d’équipe nella quale, accanto alle questioni di ordine organizzativo-gestionale della quotidianità spicciola, si potessero sviluppare discussioni cliniche sul funzionamento psicologico delle pazienti, sull’andamento delle loro storie famigliari, sul tipo di trattamento da condurre in Reparto, ecc.; ma il conseguimento di questo obiettivo ci impegnò a lungo, vista anche l’evidente sperequazione di potere decisionale che caratterizzava inizialmente la nostra posizione: all’inizio nessuno di noi era “strutturato”.

In quegli anni, quando si parlava di riunioni, ci si riferiva ovviamente a riunioni tra operatori; infatti, se si eccettuano le esperienze assembleari che si erano tenute in alcuni Ospedali Psichiatrici, come a Gorizia, Trieste, Arezzo ed in poche altre realtà, vi erano in Italia rarissime esperienze di attività di gruppo con pazienti ricoverati.

A noi, del Reparto Donne, così ci chiamavamo, occorsero più di due anni prima di poter riuscire ad organizzare delle riunioni a cadenza regolare con le ricoverate.

Queste riunioni, che pure si rivelarono già da subito come un potente strumento in grado di ridurre l’aggressività e dare un senso al tempo trascorso all’interno del Reparto, dovettero convivere a lungo con la “ritualità” dei colloqui individuali, cui restavano fortemente legati non solo le pazienti ma anche i medici e le infermiere che, con il loro abbandono, temevano di perdere anche un pezzo della loro identità professionale.

La sostituzione dei colloqui individuali con le riunioni quotidiane con le pazienti, rappresentò quindi una tappa che richiese molto tempo e molta “pazienza” ed il cui conseguimento fu possibile solo grazie all’evidenza con la quale le pazienti che partecipavano ai gruppi presentavano miglioramenti clinici più significativi e più rapidi rispetto a quelle “seguite”con colloqui individuali.

Fu così che, pur tra mille difficoltà e resistenze, piano piano la riunione con le pazienti divenne il momento centrale dell’attività terapeutica del Reparto.

Si teneva tutte le mattine, dal lunedì al venerdì, per la durata di un’ora e mezza; vi partecipavano tutte le ricoverate e lo staff di Reparto, tranne un’infermiera che, a turno, restava “fuori” disponibile per le eventuali chiamate telefoniche, ritiro di esami, nuovi ingressi, ecc. e soprattutto per consentire a quelli che stavano “dentro” una sufficiente tranquillità per potersi concentrare su quanto avveniva nella riunione.

Un medico coordinava l’incontro mentre gli altri operatori fungevano da osservatori partecipanti. La discussione era a tema libero e la finalità ricercata, in particolare agli inizi, mirava a favorire una democraticità relazionale ispirata alle comunità terapeutiche di Maxwell Jones, ma anche un’attenuazione delle ansie ed un contenimento della frammentazione psicotica soprattutto nelle pazienti in fase di grave scompenso.

Questo assetto era reso possibile dall’atteggiamento, mantenuto da tutti gli operatori, di convogliare sistematicamente nello spazio della riunione tutte le problematiche concernenti le pazienti. Fatte salve le situazioni d’urgenza, infatti, ogni tentativo di instaurare rapporti individuali con figure dello staff veniva cortesemente scoraggiato e rinviato allo spazio – tempo della riunione.

Col procedere dell’esperienza il lavoro con i gruppi ci pose sempre di più a contatto con le “parti sane” delle pazienti (aspetto questo fortemente sottovalutato nella cultura degli ambienti di ricovero psichiatrico del tempo) ed in certo senso ci “costrinse” a rivedere molte delle nostre idee sulla malattia mentale, sul significato e soprattutto sul modo di condurre un ricovero psichiatrico.

Di seguito descriverò brevemente “i dispositivi” che, nel tempo, si aggiunsero alla riunione d’équipe ed alla riunione con le pazienti e che contribuirono a determinare  le più significative trasformazioni organizzativo-funzionali del Reparto.

L’incontro di accoglimento 

Giungemmo alla sua istituzione perché non potevamo più accettare il fatto che i ricoveri venissero disposti, dal Pronto Soccorso, sulla base di consulenze nelle quali l’indicazione al ricovero era sostenuta, quasi esclusivamente, dal riscontro di una sintomatologia psichiatrica o, ancor peggio, dalle pressioni esercitate dal contesto famigliare o micro sociale del paziente; cioè senza alcuna analisi della richiesta: chi chiedeva? Cosa chiedeva? Quale sarebbe potuta essere la risposta più adeguata? Tutto questo non accadeva e neppure si poteva pensare, allora, che potesse accadere nella realtà compressa e convulsa del Pronto Soccorso di un grande Policlinico.

Il nuovo spazio dell’accoglimento avrebbe quindi dovuto assolvere alla finalità di sviluppare un’analisi della richiesta, raccogliere informazioni sulle vicende che avevano condotto le pazienti al ricovero, formulare ipotesi di orientamento diagnostico e soprattutto (cosa per noi più importante di ogni altra) consentire, laddove il ricovero ci fosse apparso indicato, di giungere alla definizione di un “contratto” che esplicitasse, in modo chiaro e realistico, “la compromissione” di pazienti, famigliari ed équipe curante relativamente al lavoro da svolgere durante il ricovero. Il nostro intento, insomma, era quello di dare un “setting” al ricovero, cioè definirne contrattualmente lo spazio (il dove), il tempo (il quando e per quanto tempo), il ruolo (tra chi e chi) e il compito (per fare che cosa).

Immaginatevi che cosa accadde… riconoscere una contrattualità a pazienti quasi sempre affetti da quadri psicotici… ed in più… in fase di scompenso!

Ovviamente le resistenze non riguardavano solo i pazienti ed i loro famigliari… ma per noi questo passaggio rivestiva una valenza fondamentale; rappresentava una pre-condizione irrinunciabile per l’avvio di qualsiasi rapporto che avesse almeno l’aspirazione di svolgere una funzione terapeutica!

L’incontro, una volta istituito, aveva la durata di un’ora e mezza; si teneva tutte le mattine, dal lunedì al sabato, e vi prendevano parte, oltre alle pazienti ricoverate nella notte o il giorno precedente, anche tutte quelle pazienti, già ricoverate, con le quali non si era ancora giunti alla definizione di un “contratto di ricovero”; all’incontro erano invitati a partecipare, oltre ai famigliari delle pazienti, anche gli operatori dei Servizi di riferimento.

Per avere un’idea di quanto potesse essere “dirompente”, al tempo, questo tipo di approccio è sufficiente pensare a cosa accadrebbe, ancora oggi, se per esempio i colloqui che si tengono a scuola tra insegnanti e genitori cominciassero ad includere gli allievi… ed assumessero la forma della multifamigliarità!!

In questo spazio assai particolare, attraversato da transferts, controtransferts e proiezioni multiple, la natura delle “crisi dei sistemi famigliari” tendeva a mostrarsi in modo così intellegibile e rapido (… e non solo per gli operatori ma per tutti i partecipanti, non foss’altro per la forma drammatico – didascalica con la quale le crisi venivano per così dire… “messe in scena”…) da rendere assai spesso del tutto ingiustificato il prolungarsi dei ricoveri.

L’incontro di counseling con i famigliari

L’attivazione di questo dispositivo, che si teneva una volta alla settimana, per la durata di un’ora e mezza, discendeva, come ormai si sarà capito, dall’importanza che noi annettevamo al coinvolgimento della rete famigliare nel processo di cura.

L’incontro era pensato come uno spazio di ascolto per i famigliari che fosse in grado di accogliere ed elaborare richieste, ansie, transferenze e proiezioni in modo tale da favorire una rimodulazione, in termini meno stereotipati, dei ruoli “aggiudicati ed assunti” dai vari membri, all’interno di ciascun gruppo famigliare.

I famigliari delle ricoverate venivano invitati a partecipare agli incontri già in fase di accoglimento; nella “consegna” di avvio del gruppo veniva chiarito che, per motivi di riservatezza, non sarebbero state fornite informazioni riguardanti le persone ricoverate; anzi, per tutto quanto concerneva il loro stato di salute si rinviava direttamente alle interessate che, si sottolineava, erano perfettamente al corrente di ogni aspetto che riguardasse il loro programma di cura: terapie seguite, risultati di esami, durata presumibile del ricovero, eventuale data della dimissione, ecc. ecc.

Anche qui si può immaginare la reazione dei famigliari. “… Ma allora questo incontro è per noi!!… ma noi non siamo mica malati!!… voi dovete dirci come stanno!!… ve le abbiamo portate per curarle… non siamo mica noi quelli da curare!!…”

Nonostante queste vivaci reazioni e le indignate proteste al Direttore della Clinica e sin anche alla Direzione Sanitaria del Policlinico, lo staff, senza arretramenti sul piano del rispetto del segreto professionale nei confronti delle signore ricoverate, ribadiva con fermezza che l’incontro non era finalizzato a fornire informazioni, bensì a  condividere le difficoltà che un gruppo famigliare si può trovare ad affrontare in occasione del ricovero di uno dei suoi membri.

Il nostro obiettivo era quello di “spingere” i famigliari a ripensare le loro congiunte  ricoverate, non come delle “pazienti” (come loro stessi ormai le definivano) ma come figlie, madri, mogli, ecc., momentaneamente in difficoltà; perciò rifiutavamo con forza quella richiesta di “alleanza”, alle loro spalle, che i famigliari ci riproponevano costantemente.

L’incontro di discussione clinica e di supervisione

Dopo ognuna delle riunioni descritte l’équipe di Reparto si ritrovava in un post-riunione, come lo chiamavamo allora, che aveva la durata di un’ora, per discutere e riflettere sugli accadimenti che le avevano caratterizzate.

Una volta alla settimana le situazioni più problematiche venivano affrontate all’interno di una supervisione con un collega psicoanalista esterno alle attività del Reparto.

Se la riunione con le ricoverate costituiva certamente “il cuore” del processo terapeutico, il post-riunione rappresentò, altrettanto certamente, “il cuore” del processo formativo di tutta l’équipe di Reparto.

Con questo assetto: riunione d’équipeincontro di accoglimento – riunione con le pazienti – incontro di counseling con i famigliari – incontro di discussione clinica e di supervisione, il Reparto andò avanti per alcuni anni.

Anni durante i quali maturarono e soprattutto si trasformarono profondamente la cultura e l’operatività di tutta l’équipe del Reparto.

La riflessione sulla interazione tra sistema famigliare e sistema istituzionale di cura, facilitata dai dispositivi gruppali che avevamo posto in essere, ci permise di renderci conto della inadeguatezza dei paradigmi concettuali con i quali operavamo e stimolò in noi la ricerca di nuove forme di approccio alle gravi situazioni  di scompenso psichiatrico che giungevano alla nostra osservazione; le strade individuate tramite quell’impegno di ricerca ci condussero all’abbandono della “cultura” dell’intervento “sul” paziente a vantaggio di una pratica di lavoro “con” il paziente ed il suo contesto.

In particolare ricordo che andarono in pezzi due classici approcci molto “di moda” in quel periodo: quello caratterizzato dalla cosiddetta “alleanza tra sani”, cioè tra famigliari e terapeuti, di cui fu possibile comprendere appieno la negatività rispetto ai percorsi di crescita psicologica delle pazienti e quello, sviluppatosi in opposizione al primo, caratterizzato dall’alleanza tra pazienti e terapeuti sullo stile “… lei è così perché ha avuto i famigliari che ha… ma vedrà… con noi sarà diverso…” 

L’uscita da queste forme di “collusività”, proprie di certa “psichiatria paternalistica” del tempo, ci permise di collocarci in una nuova e diversa posizione che per essere mantenuta necessitava però di ulteriore studio e formazione.

Lo studio della psicoanalisi ed in particolare del pensiero di Bion e di Pichon Rivière, nutrì la prima delle due esigenze, mentre la seconda trovò risposta nell’incontro con Armando Bauleo.

Alla luce del nuovo armamentario culturale di cui ci stavamo dotando, ci apparve chiaro che i diversi dispositivi che avevamo mano a mano impiantato, altro non erano se non apparati con i quali avevamo cercato di “trattare”, in maniera “separata”, i diversi aspetti di quel fenomeno, “complesso ma unitario”, rappresentato dalla malattia mentale.

Ciò che i dispositivi gruppali ci avevano consentito di “vedere” contribuì in maniera decisiva alla trasformazione del nostro modo di “pensare” il rapporto malato – malattia; dovemmo così accettare che la malattia mentale, contrariamente a quanto sostenuto dalla Psichiatria classica, non si esauriva “nel” malato, rappresentando un fenomeno di assai più ampia dimensione, in grado di interessare tutto il contesto storico e relazionale del soggetto.

Voglio dire che l’esercizio di queste pratiche terapeutiche ci aiutò a comprendere che la salute e la malattia mentale non sono fenomenologie “chiuse” nella dimensione intra-soggettiva, o addirittura intra-cerebrale, come sostenuto da certa psichiatria organicistica, bensì “aperte” alla dimensione inter-soggettiva e di contesto.

Alla rilettura delle evidenze che ci provenivano dalla clinica non potevano non fare seguito consequenziali trasformazioni sul piano dell’operatività; trasformazioni che in effetti non tardarono ad apparire, spingendo il Reparto Donne ad abbandonare la sua tradizionale organizzazione ospedaliera per trasformarsi in una realtà terapeutica, del tutto sui generis, di centro psichiatrico per le crisi; un’esperienza a tutt’oggi mai più replicata.

L’incontro di accoglimento permanente

Il nuovo strumento terapeutico, pensato per riunificare tutti i dispositivi terapeutici precedenti, prese il nome di accoglimento permanente; aveva la durata di due ore e si teneva tutte le mattine dal Lunedì al Sabato; un medico coordinava l’incontro mentre gli altri componenti dello staff, tranne un’infermiera che a turno restava fuori, svolgevano il ruolo di osservatori partecipanti.

Al gruppo partecipavano, oltre alle pazienti ricoverate, i loro famigliari e, quando possibile, anche gli operatori dei servizi di riferimento territoriale.

Il compito manifesto, esplicitato nella consegna, si componeva di due parti; la prima riguardava il come mai erano lì… il che cosa era accaduto; la seconda riguardava il che cosa pensavano di fare.

Il lavoro del gruppo prendeva le mosse dalla situazione presente, quindi muoveva verso il passato, e da qui piegava verso il futuro; poi tornava al presente, di nuovo al passato, di nuovo al futuro…

In questo andare e venire il gruppo raccontava le sue storie; i soggetti entravano nei loro ruoli, a volte se li scambiavano, si confondevano, sparivano e riapparivano; i confini famigliari si sfumavano, si rimodellavano, a volte i membri di una famiglia “entravano a far parte” di un’altra e viceversa, tutto si metteva in movimento, era come una grande rappresentazione teatrale in cui tutti gli attori (pazienti, famigliari e terapeuti) contribuivano alla costruzione di una trama continuamente rimodulata; quando il gruppo terminava, foss’anche solo per un piccolissimo aspetto, nessuno, e questo valeva anche per i terapeuti, poteva sentirsi uguale a prima.

Dopo un lungo cercare ci eravamo finalmente imbattuti in questo fantastico strumento di cura; una grande “giostra ricombinante” dove, in un intergioco di fenomeni transferali, controtranferali, proiettivi ed introiettivi, era possibile, per tutti i soggetti, rimettere in gioco la forma dei propri vincoli interni.

Il setting assunto dal centro crisi permise alla nuova struttura di svolgere quella necessaria funzione di “contenitore”, di “non processo”, che consentiva il dispiegarsi di “processi terapeutici” in grado di abbracciare contemporaneamente la dimensione individuale, famigliare e istituzionale.

Tutto ciò si tradusse in un’ accelerazione dei tempi di risoluzione delle crisi tanto vertiginosa che la presenza media giornaliera delle ricoverate, già fortemente calata con gli assetti che il Reparto era venuto mano a mano assumendo,  raggiunse i valori record di 5/6 presenze medie giornaliere!!

Ma nonostante gli importanti risultati sul piano clinico non tutto andò per il meglio.

Se, infatti, le precedenti trasformazioni istituzionali che avevano interessato il Reparto non ne avevano mai realmente messo in discussione la “sopravvivenza”, ora le cose cominciavano a prendere una piega diversa… quei dati, quei numeri, se da un lato parlavano di un’incontestabile riuscita, dall’altro aprivano la porta a scenari nuovi, inimmaginabili sino ad allora.

Il ricovero, come lo si pensava solo pochi anni prima, almeno da noi, non esisteva più, né nei numeri né nella durata né nelle finalità.

Il Reparto stesso, con le sue stanze sempre più vuote, “risuonava come un luogo del passato”… finanche il numero dei sanitari, che ai  tempi delle 30 ricoverate e dei colloqui individuali era decisamente insufficiente, ora iniziava ad apparire inutilmente sovradimensionato per questa funzione.

La percezione, ancorchè confusa, del fatto che la somma di tutti i cambiamenti realizzati nel corso degli anni stava producendo una trasformazione che andava ben al di là dell’assetto organizzativo del Reparto, investendo alla radice la nostra concezione della cura in Psichiatria, iniziò a produrre in noi reazioni inconsapevoli e scomposte.

La resistenza al cambiamento, che era sempre stata espressa soprattutto dalla Direzione della Clinica, dalla Direzione Ospedaliera, dai Servizi Territoriali, dai pazienti e dai famigliari, improvvisamente passò ad essere “interna” al gruppo dei medici e delle infermiere che sino ad allora avevano combattuto per il cambiamento: “… si però… adesso basta… dove dobbiamo arrivare?… basta!…”. Frenavano, volevano tornare indietro…

Non me lo sarei mai aspettato; proprio ora che le cose cominciavano a cambiare veramente.

Cercai in ogni modo di ricomporre il gruppo, ma non ci fu verso: il “vento controrivoluzionario” spirava forte e la mia capacità di comprendere ed intervenire nelle dinamiche istituzionali non fu all’altezza della situazione.

Mi sentii tradito, deluso e sospinto anche da altre conflittualità sul piano professionale, decisi di andarmene… aggiungendo così anche il mio contributo alla causa della resistenza al cambiamento!

Piano piano l’esperienza regredì e fu riassorbita, col tempo cambiò anche parte del personale ed un po’ alla volta… fu dimenticata… ma non tutto è stato dimenticato!

 

Riassunto

L’Autore riferisce, in questa comunicazione, di un’originale esperienza di lavoro condotta nel Reparto femminile della Clinica Psichiatrica dell’Università di Modena.

Vengono ripercorse alcune delle fasi più significative di questa esperienza che, lungo l’arco di un decennio (dal 1977 al 1987), condussero il Reparto Donne della Clinica ad abbandonare la sua tradizionale organizzazione ospedaliera per trasformarsi in una realtà terapeutica sui generis.

Le progressive introduzioni, nella realtà operativa del Reparto, di dispositivi gruppali quali la riunione d’équipe, la riunione con le pazienti ricoverate, l’incontro di counseling famigliare, il gruppo di accoglimento e la supervisione periodica di gruppo, rappresentarono “la chiave di volta” di un profondo cambiamento  nella maniera di “leggere” la malattia e nel modo stesso di pensare il ricovero.

L’interazione tra sistema famigliare e sistema istituzionale, filtrata dai dispositivi gruppali, pose presto in evidenza la stereotipia operativo – concettuale che caratterizzava lo stile di lavoro del Reparto stimolando la ricerca di nuove forme di approccio alle gravi situazioni  di scompenso psichiatrico; le strade individuate tramite quella ricerca segnarono l’abbandono della “cultura” dell’intervento “sul” paziente per passare ad una pratica di lavoro “con” il paziente ed il suo contesto.

 

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