Concezione Operativa e Gruppo Multifamiliare l’esperienza del Servizio Territoriale Dipendenze Patologiche di Senigallia

di Francesca Anderlini

Premessa teorica

 Dalle radici della terapia familiare al Gruppo Multifamigliare

Il processo che ha portato allo sviluppo di una teoria della malattia psichica dell’individuo come correlata al contesto di vita, parte da lontano e forse anche da prima del momento che individuiamo qui come uno dei fatti che ne sono stati all’origine.

Ci riferiamo ai medici Lasègue e Falret che, già nel 1877, nella descrizione della sindrome della “folie a deux”, osservavano che “Il problema non è semplicemente quello di esaminare l’influenza esercitata dalla persona malata su quella sana, ma anche quello inverso della persona ragionevole su quella delirante e di dimostrare come, tramite una serie di compromessi reciproci, le differenze vengono eliminate”(Loriedo, 1978).

Bleuler, nel suo trattato sulla schizofrenia del 1911, descrive alcune caratteristiche notate nella famiglia della persona schizofrenica, ma si può far derivare da Freud, con la formulazione del Complesso di Edipo, il primo esempio di relazione triangolare patogena. (Loriedo, 1978)

Negli anni 40 cominciò sempre più a comprendersi la relazione tra il sintomo che il soggetto presenta e la struttura famigliare della quale egli è membro.

La terapia familiare nasce nella cultura statunitense degli anni Cinquanta e si sviluppa in due diverse direzioni: una sistemica propria della Scuola di Palo Alto e una più psicodinamica. Nel contempo altri autori entravano in sinergia con questo nuovo paradigma che si stava sviluppando in riferimento al sintomo come espressione di una patologia del gruppo di appartenenza.

Nel 1942, con la partecipazione di alcuni psicoanalisti europei, nel solco tracciato ad opera dei gruppi di studio “locali” di Buenos Aires, nasce l’Associazione Psicoanalitica Argentina (APA).

Tra i fondatori Enrique Pichon-Rivière (Ginevra, 25 giugno 1907 – Buenos Aires, 16 luglio 1977), psichiatra e psicoanalista. Il suo pensiero ed il suo lavoro scientifico sono stati caratterizzati dallo sforzo teso alla ridefinizione della psicoanalisi come una psicologia sociale (analitica).

Ideò il metodo del Gruppo Operativo che definì come “[…] Un insieme di persone, legate per costanti di tempo e di spazio ed articolate su una mutua rappresentazione interna, che si propone esplicitamente o implicitamente un compito che costituisce il suo scopo” e nel quale risultano fondamentali i concetti di portavoce ed emergente. Il soggetto è un portavoce, in questo caso emergente, del proprio gruppo familiare che, a sua volta, è da intendersi come portavoce del gruppo socio-culturale più ampio di cui è parte.” (Lorenzo Sartini, “Enrique Pichon-Rivière”).

Il paziente non viene più visto semplicemente come il malato, bensì come elemento emergente della situazione gruppale e sociale che lo produce. È attraverso la famiglia, gruppo sociale primario che fa da ponte tra l’individuo e la società, che il soggetto impara a stare in relazione con gli altri e apprende una peculiare modalità per affrontare il mondo che lo circonda.

Un allievo di Pichon-Rivière è Josè Bleger, anch’egli psichiatra e psicoanalista,

A proposito della relazione tra individuo e contesto famigliare egli scrive:

“Quando l’individuo viene al mondo vi è un sincretismo, una mancanza di discriminazione fra Io e Non Io; non esiste ancora né mondo esterno né mondo interno, ma un tutto indiscriminato indiviso e solo gradualmente si differenzierà, allora si instaurerà nel soggetto un mondo interno che si differenzierà da quello esterno. (All’inizio dunque non ci sono né proiezione né introiezione). Ciò vuol dire che il processo che si sviluppa nella dinamica famigliare non è di progressiva connessione tra i membri, ma di graduale distacco ed individuazione.

La funzione istituzionale della famiglia è quella di servire da serbatoio, controllo e protezione per la parte più immatura, primitiva o narcisistica della personalità, ma al tempo stesso, grazie all’instaurarsi di una buona relazione simbiotica all’interno del gruppo famigliare (relazione simbiotica normale e necessaria) quest’ultimo, nella sua dinamica normale, permette che si sviluppino le parti più adatte e mature della personalità nell’extragruppo. Quanto al cambiamento esso deriva da cause connesse non con l’extragruppo, ma con la natura stessa-con la dinamica del fenomeno psicologico, riguarda cioè la natura intima o intrinseca delle dinamiche del gruppo famigliare.

Le situazioni di cambiamento possono provocare tre tipi di ansia: confusionale, paranoide e depressiva.” (Josè Bleger, “Psicoigiene e Psicologia istituzionale”, pag. 123).

Se il bambino viene nutrito e sufficientemente rassicurato risolverà la fase di simbiosi, si differenzierà, potrà sopportare l’angoscia di perdita, sarà in grado di sopportare la frustrazione, avrà sperimentato che la madre ritorna e che il mondo non gli è ostile, non sarà fuso e confuso con lei.

Il Gruppo Multifamigliare

 La storia dei Gruppi Multifamiliari inizia a Buenos Aires in Argentina, negli anni 60, in un reparto dell’Ospedale Psichiatrico “Borda”. Fondatori dei Gruppi Multifamiliari in Argentina, Jorge Garcia Badaracco psichiatra e psicoanalista, già presidente dell’APA, Eduardo Mandelbaum Specializzato nella Scuola di Psichiatria Dinamica, in Gruppi operativi, diretta da Pichon-Rivière, di cui è stato allievo e collega.

“In Italia la terapia di gruppo multifamigliare costituisce una forma di intervento clinico che si inserisce nell’ambito dei grandi cambiamenti avvenuti a seguito dell’entrata in vigore della legge 180 (più comunemente conosciuta come “legge Basaglia”)” (da Laura Dominijanni, I gruppi multifamiliari: cosa sono e come funzionano). Da quel momento, con la chiusura dei manicomi ed il rientro dei “pazienti” nelle famiglie, la cura è stata decentrata nel territorio e le famiglie sono state coinvolte nel trattamento. E’ interessante notare quanto sia complesso, ricco e articolato il processo che, da istituente diventa istituito, ripercorrendo il percorso che, dalle prime osservazioni sull’origine relazionale del sintomo, si muove verso la costruzione di modelli teorici e pratici di intervento che interessanole famiglie e i gruppi. Tale percorso si è sviluppato in sincronia con una molteplicità di cambiamenti a livello socio-politico, economico, culturale che hanno comportato l’emanazione di una serie di leggi (la legge sull’aborto, l’abolizione delle classi differenziali, la riforma del diritto di famiglia, la legge sul divorzio, la riforma sanitaria, la legge Basaglia) e istituzionalizzato il lavoro di équipe e l’ingresso della famiglia nel processo di cura.

In Italia la terapia multifamigliare si è diffusa ad opera di diverse correnti di pensiero e, per ciò che concerne la Psicologia Sociale Analitica ha rappresentato la naturale applicazione della concezione operativa di gruppo ai gruppi multifamiliari.

Questi Gruppi, nati per il trattamento di pazienti psicotici, sono poi stati utilizzati con pazienti border-line, con disturbi narcisistici della personalità e infine, adesso, con i famigliari di pazienti con disturbi alimentari e nel nostro caso con pazienti tossicodipendenti.

Un elemento innovativo che caratterizza questo tipo di trattamento è l’alleanza terapeutica interfamiliare.

Vale a dire che avvengono processi di identificazione che permettono l’uscita da schemi rigidi di comportamento. Già nel setting unifamiliare la famiglia, stimolata a confrontarsi con il mondo esterno rappresentato dal terapeuta e dal contesto in cui egli opera, ha modo di uscire dal proprio microcosmo, di riflettere sul proprio modo di comunicare, di confrontarsi e di sperimentare altre strade.

Ma allorché più famiglie si trovano insieme, le emozioni e le parole dell’uno trovano eco nell’altro che sembra vivere lo stesso problema e averlo risolto in modo diverso, gli integranti possono confrontarsi sulle somiglianze e sulle differenze ed il processo terapeutico intensificarsi nel dipanarsi di transfert alla pari ed intergenerazionali. Identificarsi e comprendere il figlio o il genitore dell’altro può creare le basi per dissolvere gli stereotipi che si manifestano nel pensiero e nei comportamenti, interrompere i copioni e le ridondanze e liberare energia per nuovi pensieri e progetti.

L’esperienza emozionale profonda che una famiglia può vivere in una situazione di contenimento e di appoggio che le fornisce il gruppo più ampio, aiuta a mobilitare e manifestare quei contenuti che opprimono, intimoriscono ed ostacolano il cambiamento.

Secondo Pichon-Rivière: “Quando più persone si riuniscono in un gruppo, ciascun membro proietta i propri oggetti fantastici inconsci sui diversi membri del gruppo; mettendosi in relazione con essi secondo quelle proiezioni che si evidenziano nel processo di assegnazione e assunzione dei ruoli. La struttura di interazione gruppale non solo permette, ma stimola l’emergere di fantasie inconsce. […] il ruolo è lo strumento di incontro, che determinerà alcune forme di interazione e ne escluderà altre.

Incontriamo dunque nel campo gruppale transfert multipli. Le fantasie di transfert emergono sia in relazione agli integranti del gruppo sia in relazione al compito e al contesto nel quale si sviluppa l’operazione di gruppo. […] Gli elementi del campo gruppale possono essere organizzati. L’azione gruppale, interazione nelle sue differenti modalità, può essere regolata al fine di renderla efficace, di potenziarla in vista dei suoi oggetti; in ciò consiste l’operazione.” (Pichon-Rivière, “Il processo gruppale”, pagg. 106 e seg.)

 

Quale modello di famiglia hanno in testa gli operatori: chi convocare?

Le nuove Famiglie

E’ chiaro che i progressi della scienza, della tecnologia, del lavoro femminile, i cambiamenti dei costumi e l’affacciarsi di nuovi diritti nell’ambito sociale e famigliare tutto ciò ha ampiamente influenzato e cambiato i costumi e smantellato l’identificazione di modelli famigliari univoci a cui riferirsi.

Ed è per questo che assistiamo oggi alla costruzione di svariate tipologie di famiglia: arcobaleno, adottive, omogenitoriali, monogenitoriali, allargate, famiglie divise, famiglie ricostituite Tali nuove tipologie costringono a percorsi istituenti sempre in divenire.

Le nuove famiglie non sempre hanno una collocazione riconosciuta giuridicamente ed i rapporti al loro interno non seguono sentieri già percorsi dai padri: prendiamo ad esempio le famiglie divorziate in cui i genitori si sono riaccompagnati o risposati con altri partner, forse è nato un altro figlio, forse due oltre a quello/i che ciascuno aveva avuto dal precedente matrimonio o convivenza. In queste famiglie, il sintomo che presenta l’ultimo nato divenuto adolescente, di chi è portavoce? In che rapporto sono i nuovi ed i vecchi nuclei tra loro?

Estrapolando alcuni stralci molto significativi dall’articolo di Alejandro Scherzer, “Dalla famiglia edipica alla famiglia gruppale”, rispetto a queste nuove famiglie possiamo chiederci:

“Chi educa? Chi decide? Chi sceglie la scuola?

E l’attenzione alla salute? Chi la paga? Chi supporta? Chi si prende cura?

Che cosa succede con il patrimonio: con i beni materiali, con il denaro per la sopravvivenze di ciascun gruppo familiare?

C’è un fondo comune con il denaro per i figli dell’altro coniuge?

Chi decide i luoghi, chi proibisce un’uscita, il condividere (o no) uno spazio della casa?

Come si coinvolge ciascuno nel rapporto con gli altri?

In queste nuove famiglie si generano attivazioni delle paure basiche.

Le paure familiari si intrecciano con le paure sociali.

Angosce confusionali per il fatto di rimanere come “con la testa tra le nuvole” con pochi appoggi di fronte ai cambiamenti, alle modifiche dell’identità.

Paura che possa accadere qualcosa ai figli.

Angosce persecutorie per l’avvento dello sconosciuto di fronte ai cambiamenti nelle forme di organizzazione e funzionamento delle famiglie.

Angosce di perdita degli affetti familiari, mancanza di protezione, impotenza economica, segregazione sociale per il fatto di non avere un’appartenenza familiare tradizionale, o per la ‘macchia’ della separazione.

Paura della sofferenza per le perdite delle organizzazioni conosciute.

Timori di ‘sprecare’ il tempo e lo sforzo che porta a costruire una nuova organizzazione familiare.”

Come tutto questo influisce sui nostri modelli? Non abbiamo risposte predefinite. Come un figlio non biologico, il cui padre vive in un altro nucleo famigliare, può chiamare la figura maschile del nucleo in cui vive, che svolge la funzione paterna rispetto ai figli biologici coabitanti ma non è il suo padre biologico? Come trattare le famiglie allargate? Chi chiamare in psicoterapia?

 

Il nostro lavoro con il Gruppo Multifamigliare

 A questo punto, dopo aver esplicitato per grandi linee il substrato teorico, passiamo ad esaminare la maniera in cui tutto questo si è tradotto in prassi operativa.

 Fase istituente

Da tempo, mesi, sulla lavagna della stanza delle riunioni c’era una lista di progetti attivati e da attivare, fra quelli da attivare un’idea in fieri per cui gli operatori avevano già attinto a corsi formativi e riguardava l’istituzione di un Gruppo di Terapia Multifamigliare.

Nella primavera 2018 la Scuola J. Bleger di Rimini diretta dal Dr. Leonardo Montecchi, ha organizzato un seminario su questo argomento.

Alcuni operatori decidono di partecipare.

Possiamo interpretare questo come un emergente della motivazione dell’intera équipe ad aprire questo percorso di trattamento.

Si è deciso pertanto di organizzare un corso di Formazione che si è svolto in quattro incontri a cadenza mensile, a partire dal mese di settembre 2018, dal titolo: “Processo terapeutico e gruppi multifamiliari. La ricchezza dei transfert multipli”.

Si è anche previsto di dare inizio agli incontri di terapia multifamigliare a partire dal mese di gennaio 2019 e di organizzare un’assemblea degli utenti nel mese di novembre 2018 al fine di presentare il lavoro terapeutico e di ascoltare i vissuti e le idee degli integranti.

Era ottobre e l’équipe intanto individuava, di lì ad un mese, le famiglie a cui proporre tale percorso.

Le stesse, qualora avessero accettato la proposta, venivano invitate all’assemblea.

Sono stati individuati 18 nuclei famigliari per complessivi 58 potenziali integranti, rispettando il criterio della disomogeneità che favorisce il confronto con la differenza ed il superamento di stereotipi.

Erano comprese nell’elenco situazioni di cronicità o utenti presi in carico recentemente, nuclei che avevano appena concluso la fase di valutazione o già in trattamento psicoterapico con interventi individuali, famigliari, di gruppo, casi di doppia diagnosi, famiglie di diverso ceto sociale e culturale.

Fra quelle che non hanno aderito (12 famiglie) in due di esse i figli sono entrati in Comunità terapeutica, nelle altre, uno è deceduto, uno ha abbandonato il programma, per una coppia il motivo è stato la nascita di una bambina, per un totale di 5 nuclei.

Hanno invece deciso di partecipare 6 famiglie (14 integranti), di cui 3 (8 integranti) costantemente presenti per tutta la durata del percorso

Il Gruppo Multifamigliare che si è costituito era formato da: una famiglia, padre madre e figlio, i cui genitori sono separati da anni, tre famiglie composte da madre e figli il cui padre è deceduto, una coppia di fratelli (la madre si presenterà un’unica volta) che lascerà presto il gruppo, una coppia di fratelli che entra dopo la pausa estiva.

Da subito si nota la mancanza dei padri.

Inquadramento

Si è stabilito che il gruppo avrebbe avuto inizio a gennaio con durata annuale ed interruzione nei mesi estivi (luglio e agosto) e nelle feste pasquali e natalizie. Le sedute si sarebbero svolte a cadenza quindicinale, il giovedì dalle 15 alle 16,30.

Lo spazio individuato è la stanza più grande del servizio dove si effettuano le riunioni di équipe degli operatori ed i gruppi di psicoterapia rivolti agli utenti ed ai famigliari.

Il compito del gruppo, enunciato dai coordinatori era “parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete” Abbiamo scelto un compito dove già fosse contenuta un’idea di cambiamento che, nel nostro pensiero, significa superamento degli stereotipi, delle resistenze, per desiderare e creare progetti nuovi che scaturiscano dall’Ecro gruppale (citando Pichon-Rivière: “il compito deve essere centrato su come raggiungere una maggiore salute mentale in una comunità specifica situata nel tempo e nello spazio […] ciò che si vuole ottenere è un adattamento attivo alla realtà dove il soggetto, nella misura in cui cambia, cambia la società che, a sua volta agisce su di lui, in un intergioco dialettico a forma di spirale, dove, nella misura in cui si rialimenta ad ogni passaggio, rialimenta anche la società a cui appartiene.” (Enrique Pichon-Rivière, “Il processo gruppale”)

Il ruolo di coordinazione viene svolto da una Psicologa di ruolo e una Psicologa a contratto; il ruolo di osservazione da un’Infermiera di ruolo e uno Psicologo a contratto.

I coordinatori segnalano ed interpretano gli ostacoli affettivi e cognitivi che il gruppo trova nel lavoro sul compito e gli osservatori annotano ciò che avviene nel processo gruppale, una di essi legge gli emergenti a venti minuti dalla fine.

Il coordinatore non conduce il gruppo, l’organizzazione della comunicazione non è stellare e centripeta, il depositario del sapere è il gruppo stesso con le sue differenze.

Al termine di ogni seduta gli operatori hanno deciso di riunirsi per discutere sulle relazioni gruppali e sul loro controtransfert.

Considerazioni

L’individuazione dei ruoli di Coordinatore ed Osservatore (discussa sia nella riunione di équipe che in un sottogruppo di lavoro appositamente costituito) appare caratterizzata da complessità istituzionali aventi valenza di istituente rispetto all’istituzione sanitaria.  L’Istituzione è organizzata secondo un modello verticale-gerarchico, il rapporto di lavoro regolamentato attraverso contrattazioni che distinguono il ruolo sanitario medico, il ruolo sanitario non medico, il comparto. Ma anche a livello orizzontale operatori aventi la stessa qualifica sono distinti in personale di ruolo e personale con contratto libero professionale e rapporto di lavoro a termine, con diverso trattamento economico.

A fronte di ciò il personale impegnato nel Servizio, indipendentemente dalla qualifica e dal contratto lavorativo, è, per la maggior parte, formato secondo il modello della Concezione Operativa. Ciò prevede che, all’interno dei gruppi operativi terapeutici, le stesse funzioni possano essere svolte indipendentemente dalla qualifica professionale.

Ciò che l’Istituzione separa, il modello della Concezione Operativa sovverte e riunifica, riconoscendo un valore professionale a prescindere dal ruolo istituzionale e dall’aspetto economico, ma tale ambivalenza passa anche nel corpo dell’équipe e degli operatori stessi, nell’utopia, che trova ostacoli nel modello socio-economico corrente, che al valore lavoro corrisponda anche un valore di riconoscimento culturale, professionale ed economico.

 

Presentazione del lavoro

 Metodologia

 Si utilizza la Concezione Operativa come strumento di analisi del processo gruppale seguendo i vettori di Pichon Riviere: appartenenza, pertinenza, affiliazione, cooperazione, telé, comunicazione.

Si analizzano la prima seduta, la seduta centrale e quella finale, ciascuna in base agli emergenti iniziale intermedio e gruppale.

Prima seduta (10 gennaio 2019)

Come ad ogni “prima” si respira tra tutti gli operatori del Servizio un clima frammisto di ansia e eccitazione per la nuova istituzione dei Gruppi di Terapia Multifamigliare.

Si decide di dare avvio al gruppo con le note di una canzone che recita:

tutto quello che mi serve adesso è ritrovarmi con me stesso perché spesso con me stesso ritrovarmi non mi va. Certo non si può restare tutto il giorno a disegnare una casetta con il sole quando il sole se ne va…non sarò mai abbastanza cinico da smettere di credere che il mondo possa essere migliore di com’è. Ma non sarò neanche tanto stupido da credere che il mondo possa crescere se non parto da me…” (Brunori Sas- Costume da torero)

Qualcuno arriva in ritardo segnalando la difficoltà ad entrare nel compito.

Siamo nella fase di pre-compito, caratterizzata dall’assenza di discriminazione e da emozioni, pensieri che si frappongono al cambiamento (paure di base di perdita e attacco, paura del cambiamento, insicurezza, fantasie di base di malattia, trattamento, cura)

Ogni integrante arriva portando il proprio schema di riferimento, il proprio gruppo interno costruito a partire dalla situazione triangolare di base. Dice E. Pichon-Rivière: “Lo schema di riferimento è l’insieme di conoscenza, di attitudini che ciascuno di noi ha nella sua mente e con le quali lavora in relazione con il mondo e con se stesso” (Applicazioni della Psicoterapia di gruppo, 1957, e in Tecnica dei gruppi operativi, 1960). Partiamo dalla base della “preesistenza in ciascuno di noi di uno schema di riferimento (insieme di esperienze, conoscenze e affetti con i quali l’individuo pensa e agisce)”. Questo schema di riferimento è ciò che permette al soggetto di possedere modelli di sensibilità, modi di pensare, sentire e fare nel mondo e che segnano il suo corpo in una certa maniera. È la sua tendenza alla ripetizione che offrirà resistenza al nuovo, agli stimoli (idee o esperienze) che tendono a destrutturarlo.

Pichon-Rivière sostiene che così come abbiamo necessità di uno schema di riferimento, un sistema di idee che guidi la nostra azione nel mondo, abbiamo necessità che questo sistema di idee, questo apparato per pensare, operi anche come un sistema aperto che permetta la sua modificazione.

Viene enunciato il compito: “parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete

Il processo gruppale inizia toccando da subito il tema della risoluzione della simbiosi nella relazione tra genitori e figli, ma ciò che è contenuto nel primo emergenteIo sto meglio da quando ho smesso di identificarmi con la sofferenza di mio figlio” viene presto contraddetto da quanto affermato da un altro integrante: “mia madre è un caposaldo del mio benessere” affermazione che evidenzia come il rapporto di dipendenza ed indiscriminazione sia lungi dall’essere risolto. La separazione, l’individuazione sembrano essere solo auspicate, desiderate. L’emergente sta ad indicare che il gruppo, appena costituitosi, vive una fase di indiscriminazione ed ambivalenza di cui non è consapevole.

Dopo circa mezz’ora entrano 2 integranti: madre e figlia. Il ritardo rappresenta simbolicamente la difficoltà ad entrare nel compito, la resistenza caratteristica in particolare di questa fase di pre-compito.

Nella fase centrale il gruppo sembra riconoscere un bisogno di aiuto, sembra sentirsi la necessità di essere sostenuti dall’istituzione che cura e dal gruppo stesso, come si evidenzia nel secondo emergente: “Ho bisogno di parlare con qualcuno che mi possa supportare…Ma per poter dare concretezza a questo intento occorrerà creare dei vincoli che costituiranno la base del confronto e della possibilità di cambiamento.

Una coppia di fratelli esce mezz’ora prima del termine.

La cornice del setting, con una durata definita, ci permette di interpretare questo comportamento come una resistenza del gruppo a stare nel hic et nunc e nella relazione con gli altri. Sembra manifestarsi un desiderio di fuggire da una possibile ansia persecutoria e dolorosa provocata dalla sensazione di dover cambiare il proprio schema di riferimento sul quale si è costruita la propria vita, cucendo assieme idee e sentimenti giorno dopo giorno.

Un integrante, identificatosi nella coppia di fratelli, paragonandoli ai suoi figli non altrettanto uniti, esprime il dispiacere per la loro uscita dal gruppo ed in questo modo, forse, ribadisce la motivazione al compito ed un primo desiderio di appartenenza. Vediamo, già da queste prime note, come ogni movimento del gruppo sia connotato da ambivalenza.

La prima seduta si conclude con la constatazione dell’esistenza di un legame di dipendenza nel rapporto genitori-figli di cui il figlio, con il sintomo della tossicodipendenza, si fa portavoce. Una madre annuncia: “Non sono sufficientemente forte per lasciarlo andare (nei giardini di notte) da solo” Questa frase viene restituita al gruppo come terzo emergente del processo gruppale: così come non è differenziato il vincolo tra genitori e figli, anche il gruppo sta attraversando una fase di indiscriminazione e ambivalenza.

Seconda seduta 21 marzo 2019

 Sono trascorsi tre mesi dal primo incontro, il gruppo ha cominciato a sviluppare sentimenti di appartenenza, gli integranti si attendono ogni volta, provano la gioia, la rassicurazione di ritrovarsi, si sono cominciati a creare dei vincoli, ma in questa seduta mancano tre famiglie. L’assenza, indice della resistenza e dell’ambivalenza presente anche nel desiderio di appartenere, provoca sentimenti di rabbia e perdita non sempre chiaramente manifestati. I presenti si chiedono il perché dell’assenza degli altri, ricercano una giustificazione per tale comportamento che suscita sentimenti abbandonici e di rabbia.

Il primo emergente dà significato a questo passaggio del processo gruppale: “mancano persone: ci sono motivi?

I presenti ribadiscono di sentire l’importanza di esserci e la verbalizzano:

 “io sto vedendo che cambiamo come persone singole, affrontiamo i problemi in modo diverso. Poi se si vogliono risultati diversi bisogna agire in modo diverso. Avevo altre cose da fare però ho scelto di venire qua […]”

Forse il vissuto di abbandono evoca i fantasma della “madre cattiva” e qualcuno afferma   “io porto via solo le parti positive” frase che viene letta come secondo emergente gruppale.

Questo emergente segnala il meccanismo di scissione che sembra caratterizzare in questa fase il processo gruppale. Citando Pichon-Rivière: “il soggetto agisce in due direzioni: verso la gratificazione (costituendosi così il legame buono) e verso la frustrazione (stabilendo il legame cattivo). E’ così che sorge la struttura divalente nel sistema del legame con oggetti parziali o, più chiaramente detto, con una scissione dell’oggetto totale in due oggetti parziali, uno di essi vissuto con una valenza totalmente positiva, dal quale il soggetto si sente totalmente amato e che ama; l’altro oggetto è segnato da una valenza negativa: il soggetto si sente totalmente odiato; legame negativo del quale bisogna disfarsi o che bisogna controllare o negare o proiettare su qualcun altro.”

Iniziando a riconoscere degli oggetti, seppur parziali il gruppo comincia a muoversi dalla indifferenziazione alla discriminazione.

Il processo infatti, sta direzionandosi verso una maggiore differenziazione dei ruoli e dei confini come è testimoniato dalla seguente affermazione di un figlio “Noi non avevamo messo dei paletti tra di noi, adesso invece ce li siamo posti questi paletti”

Ma tali ruoli sembrano ancora incerti e da definire. Un padre afferma  “fino a 50 anni fa il padre era vicino alle parole autorità, rispetto e potere, oggi sono parole smarrite, la distanza padre figlio era epocale, come se quella persona fosse del secolo precedente, quando sono diventato padre ho notato che le distanze si erano accorciate, la distanza di generazione, tra me e i miei figli c’è stata possibilità di dialogo, la distanza si è accorciata, la comunicazione è stata possibile.

Per fortuna il ruolo del padre è svanito!”

Qualcuno aggiunge: Non è svanito è cambiato

L’emergente finale di questa seduta viene identificato nella frase “il ruolo del padre è svanito”

La famiglia è cambiata e non ci sono nuovi modelli.

Il gruppo sta cominciando a pensare ed a vivere il cambiamento, ma permane l’ambivalenza e la scissione di parti che vengono proiettate nell’altro, non si è sviluppato ancora un ecro condiviso.

Terza seduta: 27 giugno 2019

 E’ l’ultima seduta prima delle vacanze estive.

Il processo gruppale continua, seppur con molte ambivalenze, spinte in avanti e ritorni indietro, a indirizzarsi verso una maggiore discriminazione ed esplicitazione dei contenuti latenti.

Sembra che il gruppo, attraverso le parole di un integrante, lavorando intorno al compito (“parlate di come stare meglio e di qualsiasi cosa volete“) possa affermare di essere passato ad una condizione di maggior benessere che viene enunciata nell’emergente iniziale:

“voglio stare esattamente come sto in questi giorni, penso di aver vinto una piccola battaglia, ogni volta che dava di matto (si riferisce alla madre) mi sgonfiavo: eravamo un palloncino, adesso siamo due palloncini”

L’immagine del palloncino, evocativa dell’utero, si scinde: dall’uno onnipotente e simbiotico, si crea l’altro, ancora uguale, ma separato. L’immagine appare leggera e volatile come un processo appena cominciato.

Infatti la separazione e la relativa individuazione sembra difficoltosa da realizzare e avvalersi della conflittualità per potersi concretizzare:

Il figlio continua: “Dopo la litigata sono continuato a stare bene. Non mi ha tirato giù. Ha un problema e lo deve risolvere (rabbia)

Avere la crisi e io che continuo a stare bene, lei non lo ha mai vissuto. Siamo due palloncini, io e lei, e lei il suo lo deve ritirare su.”

E’ la madre che “si sgonfia” perde l’immagine di sempre, mostra la sua fragilità.

La madre annuncia che ha iniziato un percorso terapeutico individuale.

Circola un’ansia depressiva, dovuta alla perdita dei vecchi ruoli, alla separazione, allo scioglimento del vincolo simbiotico ed accentuata anche dal fatto che è l’ultimo gruppo prima dell’interruzione estiva

Un padre, colui che per ruolo è deputato allo scioglimento della simbiosi tra madre e figlio, sottolinea la sofferenza dovuta alla perdita del ruolo affermando: Molte donne alla fine della carriera domestica a 50 anni si sono sentite completamente sole e sono entrate in depressione… La madre dovrebbe diventare inutile per permettere i figli di andarsene

I genitori iniziano ad essere consapevoli che la dipendenza, insita nel legame simbiotico e diventata tossica per il suo prolungarsi, è legata alla fragilità ed al bisogno di appoggio del genitore oltre che alle difficoltà del figlio.

Un’integrante svela il proprio bisogno di dipendenza dal figlio e se ne riappropria riconoscendolo come parte di , questo vissuto si incrocia con il processo gruppale in cui gli stereotipi sulla tossicodipendenza iniziano ad essere abbattuti e costituisce il secondo emergentela responsabilità mi annebbia il cervello e mi esce fuori quell’aggressività che è in me, mio figlio mi aiuta a superare i momenti difficili nel lavoro”.

Emerge anche, come esplicitato nel terzo emergente, che la storia che porta alla tossicodipendenza dei figli nasce da lontano:

prima di essere stati genitori siamo stati un uomo e una donna e abbiamo fatto errori”

Di questo si può parlare con gli altri integranti e la comunicazione nel gruppo diviene intergenerazionale come il seguente dialogo tra una madre, che parla del suo ex marito, ed il figlio.

Madre: Noi ci siamo conosciuti che già litigavamo e siamo stati in conflitto fino all’ultimo. Lui soffriva di dipendenza e anche io, ero senza criteri, non avevo chiaro…

Figlio: Sono stati separati ma mio padre ha vissuto sempre con noi…

Due figli dei fiori erano!

Madre: Sì, nell’Urbino degli anni ’70, nel marasma dell’università.

Se lo rincontrassi adesso gli direi “Che abbiamo combinato?”

Purtroppo non si può tornare indietro!

Io forse da ragazza trascuravo più lui (il figlio) per le mie problematiche e quello che non ho fatto ho cercato di recuperarlo nel tempo.

 

Considerazioni finali

Il gruppo, attraverso la costruzione di vincoli, ha potuto confrontarsi con altre forme di pensiero (ecro), costruite da ciascun integrante a partire dalle prime esperienze infantili, ed affrontare l’ansia depressiva, persecutoria, confusionale derivata dal cambiamento dei propri modelli di riferimento per cominciare a costruire un ecro gruppale. Nella fase di precompito si sono potuti osservare gli elementi istituzionali e sociali che operano come ostacoli e resistenze al cambiamento e nel compito come operano elementi gruppali, immaginativi di cambiamento.

Il percorso ancora in evoluzione (il gruppo avrà termine a dicembre) è stato molto ricco e connotato da passaggi fortemente emotivi dovuti al realizzarsi di transfert multipli e al confronto tra i diversi modelli rappresentanti l’istituzione famiglia nella nostra epoca e l’esperienza di ogni integrante.

L’esperienza è stata molto ricca e coinvolgente anche per gli operatori che, anch’essi, hanno potuto riflettere sui propri schemi di riferimento iniziali e sviluppare un percorso di cambiamento teso a sviluppare un ecro comune.

 

 

Bibliografia

 

Josè Bleger, Il gruppo familiare, in “Psicoigiene e psicologia istituzionale”, La Meridiana, Molfetta (BA), 2011

Enrique Pichon Rivière, “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN), 1985

Enrique Pichon Rivière, “Applicazioni della Psicoterapia di gruppo”, 1957, in “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN), 1985

Enrique Pichon Rivière, “Tecnica dei gruppi operativi”, 1960, in “Il processo gruppale – Dalla psicoanalisi alla psicologia sociale”, Editrice Lauretana, Loreto (AN),1985

Leonardo Montecchi, “Varchi”, Pitagora Editrice, Bologna 2006

Jorge Garcia Badaracco; Andrea Narracci, “La psicoanalisi multifamiliare in Italia”, Antigone Edizioni, Torino, 2011

Eduardo Mandelbaum, “Teoria e pratica dei gruppi multifamigliari”, Nicomp, 2017

Camillo Loriedo, “La psicoterapia relazionale”, Astrolabio, Roma, 1978

Lorenzo Sartini, “Enrique Pichon-Rivière”, da www.lorenzosartini.com

Alejandro Scherzer, “Dalla famiglia alla famiglia gruppale”, 2011, da www.lorenzosartini.com

Laura Dominijanni, “I gruppi multifamliari: cosa sono e come funzionano”, 2012, da www.associazioneinverso.it

 

 

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Una risposta a "Concezione Operativa e Gruppo Multifamiliare l’esperienza del Servizio Territoriale Dipendenze Patologiche di Senigallia"