Avatares de la Clinica: introduzione al seminario «Psicanalisi e psicofarmaci» a Rimini

Questa occasione ci permette una operazione molto significativa, che consiste nella ripresa del dialogo tra paradigmi conoscitivi relativamente ai temi che attengono alla Psichiatria.

Mi sembra importante affermare con chiarezza la necessità di riattivare tale dialogo e di riproporre l’avvio agli approfondimenti che ne conseguono, proprio in questo momento storico, politico e culturale.

In questa nostra Italia abbiamo assistito alcuni decenni fa al parto della riforma psichiatrica più avanzata del mondo, ed alcuni di noi hanno anche contribuito a produrla, e a renderla effettiva ed operativa.

Nelle maglie di tale trasformazione, che aveva assunto per certi aspetti una configurazione rivoluzionaria, si intravedeva la promozione di una concezione concettuale complessa e transdisciplinare intorno alla sofferenza psichica, che permetteva di pensarla come un fenomeno che poteva modificarsi e cambiare, per via della sua interazione con i contesti, tra i quali si diceva giocassero un ruolo essenziale quelli istituzionali dell’intervento trattamentale.

In questa stessa nostra Italia stiamo oggi assistendo in questo ambito ad un potente movimento restaurativo e reazionario, che promuove la rincorsa verso assetti istituzionali nuovamente rigidi e totalizzanti, e che è basata su cognizioni culturali e pseudoscientifiche , prese molto spesso in prestito da forme di pensiero sviluppatesi in altri paesi, che tendono a semplificare la lettura dei problemi psichici e psichiatrici, a ridurli, a riferirli di nuovo ad un campo che è quello squisitamente fenomenico – fattuale, e a riportarli a manifestazioni che meramente emergerebbero da una sfera biologica isolata dagli ambiti in cui si produce e si esprime, e che, di conseguenza, presenterebbero possibilità di risoluzione e di cambiamento molto ridotte.

In questa occasione, la presenza del prof. Alejandro Alvano, che ha scritto nel 2003 un testo assieme al prof. Armando Bauleo intorno alle problematicità della clinica e dell’intervento in psichiatria, facendo parlare tra loro l’approccio neurobiologico e quello psicoanalitico, ci permette di riaprire queste riflessioni. Questo testo riposiziona la problematica psichiatrica all’interno di un approccio che fa riferimento alla teoria della complessità, e induce di nuovo alla possibilità di costruire un dialogo transdisciplinare, e di ripensare intorno alla complementarietà delle discipline, in particolare quelle neurobiologiche e psicoanalitiche, a partire dalle necessità cliniche rappresentate da certi pazienti, per la sofferenza dei quali una singola dimensione trattamentale appare insufficiente a promuovere condizioni di miglioramento significativo e stabile, e per i quali appare maggiormente incisivo attivare contemporaneamente azioni psicofarmacologiche e psicoterapiche.

E’ composto da due parti, ognuna curata dal suo proprio autore, che continuamente si rimandano echi concettuali ed operativi, pur riferendosi ciascuna specificamente ad un proprio e differente paradigma conoscitivo. Gli autori continuamente costruiscono , ognuno a partire dal suo punto di osservazione e ricerca, delle armoniche, che risuonano incessantemente, mettendo in guardia dai pericoli del riduzionismo scientifico da un lato, e della disgiunzione disciplinare dall’altro, e sottolineando la necessità di avvicinare i temi della Soggettività e della sofferenza utilizzando un approccio complesso: complesso perché il Soggetto è ritenuto in realtà inconoscibile totalmente, sia che usiamo una pluralità di paradigmi per avvicinare questa conoscenza, sia che , meno che meno, pretendiamo di individuare un solo paradigma esaustivo.

La parte curata e redatta dal prof. Alvano si riferisce a tematiche di neurobiologia e psicofarmacologia. Il pensiero complesso affiora continuamente nella sua esposizione, in quanto gli aspetti organici che egli tratta non si riducono mai ad equazioni lineari di tipo causa – effetto, ma sono sempre rappresentati all’interno di una configurazione dinamica ed aperta.

Il problema della sofferenza psichica, dal suo punto di vista neurobiologico e neurochimico, è trattato in un modo che va molto al di là della ricerca della falla neuronale o dell’effetto del singolo neurotrasmettitore: ribadisce continuamente che è inutile cercare la causa di certi problemi psichiatrici nel deficit funzionale o anatomico di certe aree specifiche del cervello, perché viene dimostrato come le stesse localizzazioni puntuali di deficit strutturali o funzionali possono accompagnare forme diverse di espressione patologica, e inoltre una singola espressione patologica può collegarsi alla disregolazione di aree diverse e molteplici del tessuto cerebrale.

Il cervello ed il suo funzionamento sono rappresentati secondo lo schema di riferimento dei sistemi aperti e dinamici, tanto che Alvano costruisce l’ipotesi secondo la quale la sofferenza psichica è accompagnata da configurazioni citoarchitettoniche e neurochimiche cerebrali che inclinerebbero il soggetto verso una impossibilità funzionale di accogliere i nuovi apprendimenti che l’ambiente attuale potrebbe apportargli, e verso quindi una ripetizione e fissazione di schemi affettivi appresi nel passato.

Il cervello è quindi pensato in costante rapporto con un ambiente, un “entorno”, un contesto, che può promuovere o no nuovi apprendimenti continui; tali apprendimenti si consolidano in concomitanza con variazioni misurabili della citoarchitettura cerebrale, che cambia contestualmente, grazie ai fenomeni di neuroplasticità e di neurogenesi.

Secondo questa impostazione, la sofferenza psichica insorge per fenomeni di disregolazione emotiva ed affettiva che si basano su esperienze inscritte nella memoria, che vengono rievocate nella loro drammaticità percepita per via di fattori scatenanti attuali, e che l’organismo fa fatica a correggere e a ricontestualizzare, in quanto il suo apparato neuroplastico e neurogenico è bloccato in un sistema di funzionamento che si è irrigidito.

E’ in questo senso che è letto il ruolo giocato dalla neurotrasmissione e dalla localizzazione citologica ed anatomica delle funzioni.

Quindi vediamo come Alvano, dedicandosi alla neurobiologia ed a gli aspetti organici e biochimici, faccia un riferimento chiaro alla teoria della policausalità: costituzione – disposizione – fattore attuale.

Dedica un grande spazio alla questione della processazione delle emozioni, della configurazione delle memorie, della varietà neurotrasmettitoriale e della complessità dell’azione dei neurotrasmettitori e dei neuropeptidi medesimi, con l’attenzione sempre tesa a sottolineare il rapporto tra questo funzionamento ed il ruolo dell’ambiente circostante, attuale ed arcaico.

Una concentrazione particolare è focalizzata sul tema depressivo, laddove la configurazione della depressione è essa stessa letta come incapacità dell’organismo di accogliere apprendimento nuovo, e la terapia psicofarmacologica è interpretata secondo la sua capacità di indurre nuovamente una possibilità di rinnovamento neuroplastico e neurogenico.

Lo stesso tempo di latenza necessario per rilevare gli effetti antidepressivi dei medicamenti specifici è interpretato come quel tempo necessario affinché le trasformazioni biochimiche indotte dal farmaco possano produrre i fenomeni di rimaneggiamento plastico cerebrale e le modificazioni citoarchitettoniche che ne conseguono, attraverso l’attivazione di nuove sintesi proteiche per via della espressione genica che viene sollecitata.

In ogni caso, Alvano fa un esplicito appello alla transdisciplinarietà necessaria: dirà a più riprese che questo meccanismo non può spiegare esaustivamente la questione della genesi o della risoluzione della patologia e della sofferenza psichica, perché riguarda solo la sua parte manifesta, e non tiene e non può tenere conto della dimensione latente che ha prodotto questa configurazione fenomenica; la dimensione latente va esplorata secondo gli schemi di riferimento concettuali ed operativi di altre discipline, che quindi appaiono necessarie per poter portare un approccio più articolato al problema psichiatrico, in quanto un latente non elaborato e non chiarificato, agganciato al passato e a vecchie concezioni reali o fantasticate, tenderà a ripresentarsi con la sua dinamica soggiacente, e a riprodurre effetti sul piano manifesto.

Suggerisce che questa operazione debba trovare svolgimento all’interno di una relazione psicoterapeutica, all’interno di un vincolo, quindi, con un operatore che promuova, nel rapporto con il paziente, la ricodificazione e ricontestualizzazione del materiale latente, ed osserva che l’azione psicofarmacologica, se è vero che ha come effetto quello di ripredisporre l’organismo ad apprendere nuovamente, ha l’importante compito di rendere più praticabile questo processo che si svolge nella relazione terapeutica.

Nella parte del libro curata da Armando Bauleo riecheggiano le argomentazioni attorno alla psichiatria come campo complesso, alle emozioni, alla memoria, alla policausalità, e alla depressione, con l’utilizzo di uno schema di riferimento concettuale ed operativo che attiene alla psicoanalisi.

Questo paradigma, che con la psicoanalisi nasce e con essa poi si sviluppa, ritiene di dare alla psichiatria la possibilità di uscire dal campo riduzionista dell’organicismo semplificante, e di metterle a disposizione un processo di pensiero che possa guardare al sintomo come ad un significante, con una sua causa, una sua struttura ed una sua finalità.

Mano a mano, nello sviluppo del pensiero psicoanalitico, i sintomi ed il loro significato saranno sempre più inquadrati all’interno del campo complesso della intersoggettività.

La mera osservazione, descrizione, classificazione ed infine soppressione dei sintomi, anche e soprattutto per via dell’azione farmacologia, ci ricorda Bauleo, non può produrre la necessaria elaborazione dei luoghi strutturali della personalità individuale, che, se sono rimasti in capaci di produrre un adattamento attivo alla realtà, restano fucine di espressione e di produzione di disagi, che prima o poi torneranno a manifestarsi.

E il luogo principe per l’elaborazione di queste problematiche è il vincolo terapeutico.

Torna quindi, da un’altra prospettiva, la questione posta da Alvano.

Secondo questo altro paradigma, la soggettività è molto altro che un tecnologico agglomerato di fatti biologici: è la risultante di un processo con forti implicazioni simboliche e semantiche, che continuamente mette in relazione il mondo interno con il mondo esterno, mentre tenta di differenziare l’uno dall’altro.

E in questi mondi, nella loro configurazione, dobbiamo considerare anche gli aspetti delle strutture istituzionali, con il loro gioco dialettico tra istituente ed istituito.

Parliamo quindi di un uomo in situazione, che è plasmato dai suoi contesti, ma che anche plasma i contesti in cui vive e si esprime.

Questa attenzione rispetto all’”entorno” permette di riformulare i concetti di disposizione e di fattore scatenante, e di ripensare l’emergenza della patologia come collegata ad una esperienza traumatica, che riattualizza qualcosa che è accaduto nell’infanzia, per via dell’apparizione della sessualità, e ci impone una riflessione articolata su cosa possiamo identificare come trauma.

Bauleo ricorda che l’intento degli autori in questa opera costruita insieme è stato precipuamente operativo, nel senso che la necessità di pensare in termini di epistemologie convergenti , di complementarietà tra discipline che si riferiscono ognuna al proprio schema di riferimento, è stata sollevata dalle richieste dirette della clinica obiettiva, e non da una mera speculazione intellettuale. La necessità di questo dialogo è stata posta dalle problematiche complesse rappresentate da certe patologie di confine, per le quali un unico approccio trattamentale, solo psicofarmacologico o solo psicoterapico, si mostrava insufficiente ed inadeguato. Da qui il suggerimento e la descrizione di come può essere il modello di funzionamento di una “macchina terapeutica” messa in essere da un’équipe all’interno di una istituzione sanitaria, con la cooperazione interdisciplinare a favorire il lavoro attorno ad un obiettivo condiviso.

Nell’ottica psicoanalitica tornano ad essere centrali, per favorire il procedimento diagnostico e trattamentale, i temi del transfert e del controtransfert, della ricostruzione storica dei fatti esistenziali del paziente, l’esplorazione delle identificazioni proiettive del paziente sui membri dell’équipe, mentre la valutazione della obiettività e della pregnanza dei sintomi può orientare la prospettiva psicofarmacologica.

Al di là delle sue trasformazioni, la psicoanalisi conserva dei cardini fondamentali, che sono la idea che esista un campo latente o inconscio in relazione dialettica con il manifesto, che esistano i fenomeni di transfert e controtransfert e resistenza, e che la sessualità, in particolare quella infantile, giuochi un ruolo centrale nella configurazione della soggettività.

C’è configurato, quindi, un campo psichico, che in nessun modo può essere ridotto ad un luogo anatomico, e che non può essere esplorato secondo i cardini di lettura di una scienza naturale.

Oltre la dimensione di continua trasformazione ed evoluzione che la psicoanalisi dimostra, Bauleo recupera il concetto di malattia unica espresso da Pichon Riviére, intendendo con questa locuzione che nella psicopatologia possiamo individuare un aspetto patogenetico che genera tutte le forme manifeste di sofferenza psichiatrica, che è un nucleo depressivo, un’esperienza irrisolta di perdita, che si riattualizza per via di fattori scatenanti attuali traumatici, il cui vissuto il soggetto tende ad evitare, perché eccessivamente doloroso, attraverso il ricorso a forme difensive, che infine appaiono come sintomi; ecco che torna lo stato depressivo come luogo centrale della sofferenza, e come nucleo che può essere affrontato utilizzando un doppio approccio complementare, quello psicofarmacologico e quello psicoanalitico ed intersoggettivo: torna, ci sottolinea Bauleo, la premessa di Pichon Riviére: “ la medicazione serve affinché il quantum di ansietà non impedisca al paziente di entrare in comunicazione”.

E così come Alvano sostiene che non è sufficiente intervenire psicofarmacologicamente in una infermità psichiatrica, perché il latente del nucleo psicopatologico deve essere elaborato in una relazione psicoterapeutica, ed il farmaco non può fare effetti in questa sfera, Bauleo sottolinea che non si può scotomizzare il corpo e l’obiettività della sofferenza dei pazienti, la fisicità, anche, di questa sofferenza con il suo materiale visibile, udibile, pesabile, che sotto questo punto di vista , ha bisogno di essere trattata farmacologicamente, perché va al di là di qualsiasi interpretazione psicoanalitica.

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